Israele e Turchia, ma anche Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti stanno vivendo con preoccupazione la guerra russa in Ucraina e potrebbero usare la situazione per ridefinire il calcolo strategico. Conversazione con Giuseppe Dentice (CeSI)
Nessuno si può assumere l’onore di prendere una posizione pubblica pro o contro Russia e Stati Uniti, e dunque serve galleggiare in una linea di bilanciamento molto difficile per non scontentare nessuno ed evitare possibili ritorsioni: questa è la premessa che accomuna tutti i Paesi della regione mediorientale e su cui si basano le mosse in divenire che riguardano Israele come Arabia Saudita o Emirati Arabi e Turchia o Qatar. Tutti interessati a evitare di subire i pesanti contraccolpi che la guerra potrebbe produrre.
Un esempio: Russia e Ucraina sono tra i principali produttori di grano nel mondo, di cui ne esportano circa il 25 per cento del totale globale. Alcuni Paesi della regione sono dipendenti dal grano russo e ucraino (un esempio estremo: l’Egitto, che ne dipende per il 31 per cento). A questo si unisca che da Russia e Ucraina esce l’80 per cento dell’olio di semi del mercato globale, un prodotto molto usato nelle cucine mediorientali.
Significa che se i raccolti a causa della guerra e delle sanzioni dovessero saltare, per molti Stati del mondo – in particolare Paesi del Medio Oriente e Nord Africa – le scorte di beni alimentari primari sarebbero o più costose o carenti. L’andamento del prezzo del grano è un esempio lampante di come la guerra creata dall’invasione dell’Ucraina ordinata da Vladimir Putin sta scombussolando la vita di persone (in molti casi povere).
Per avere un termine di confronto, l’ultima volta che il prezzo del grano ha toccato questi livelli sono esplose le Primavere arabe che hanno destabilizzato l’intera area del Mediterraneo allargato. Questo significa tensioni sociali (e dunque politiche), potenziale destabilizzazione, rischi di conflitti, apertura di possibili crisi migratorie, se le condizioni non dovessero cambiare in fretta. Anche perché in fretta non è possibile sopperire alla produzione/esportazione di un quarto del grano del mondo.
Un altro Paese che subirà gli effetti di ciò che sta succedendo è la Turchia. Nonostante Ankara produca circa la metà del grano che consuma, da Russia e Ucraina proviene il 78 per cento delle sue importazioni. Ma non solo il grano: ieri, lunedì 7 marzo, il porto di Olvia sul Mar Nero è stato colpito da un bombardamento russo. Lo scalo è in concessione alla QTerminals, l’azienda di logistica portuale affiliata alla Mwani Qatar che gestisce i porti per conto dell’emirato di Doha. Oppure ancora: Mubadala Investment Co di Abu Dhabi. e la Qatar Investment Authority sono stati alcuni dei fondi sovrani più attivi in Russia negli ultimi dieci anni e ora sono tra i più esposti al crescente isolamento finanziario della Russia.
Tutti Paesi mediorientali stanno evitando di aumentare i fronti di caos, ma contemporaneamente stanno ridefinendo il calcolo strategico verso Russia e Stati Uniti (e Iran), e questo significa alzare il livello di coinvolgimento spiega Giuseppe Dentice, Head del Mena Desk del CeSI. “Israele e Turchia lo stanno dimostrando, perché potrebbero avere molto da perdere dall’allargamento della crisi”, spiega a Formiche.net.
“Per Israele il tema è sicuramente l’Iran”, continua Dentice: “Israele ha bisogno della Russia sia per la Siria, ma anche Libano e Iraq che sono tutti dossier percepiti e filtrati da Israele attraverso il prisma iraniano, sia per altre questioni. C’è un rapporto che riguarda la proposta di mediazione russa nella questione israelo-palestinese, e poi c’è la questione culturale degli ebrei russi che spesso vanno in Israele anche su spinte del governo russo”.
Secondo informazioni ottenute da Formiche.net, gli israeliani si muovono con scetticismo anche perché sono sicuri che qualora si fossero trovati in una condizione simile a quella ucraina e a parti invertite, ossia se fossero stati attaccati dall’Iran, la risposta occidentale sulla difesa di Israele non sarebbe stata così unanime. Queste considerazioni sono anche parte della narrazione con cui Gerusalemme intende darsi peso all’interno della situazione, ma d’altronde se il primo ministro Naftali Bennett è andato al Cremlino per incontrare Putin deve essersi mosso con qualche proposta corposa e con un mandato di qualche genere arrivato da Washington.
”Israele finora è stato concentrato a guardare il suo cortile di casa, ora si orienta in una politica internazionale di ampio spettro”, aggiunge Dentice: “Però tutti in Medio Oriente sono interessati a fare in modo che la situazione non peggiori, anzi. Sono tutti praticamente allineati, cosa non scontata, nel cercare di fare qualcosa. I Paesi del Golfo anche si stanno muovendo, ma lo fanno in modo meno evidente. Sia Riad che Abu Dhabi hanno per esempio avuto contatti con il Cremlino, e se lo hanno fatto è perché c’è il beneplacito degli Stati Uniti”.
La paura è il complicarsi della crisi e il peso d ei suoi effetti su fattori come le materie prime (alimentari e non solo). Ma anche la possibilità che il conflitto imponga alla Russia una ritirata tattica da alcuni fronti come la Libia o la Siria – ritirata magari necessaria per spostare risorse in Ucraina – e, spiega l’analista del CeSI, questo imporre ad alcuni attori mediorientali come Israele, Emirati, Arabia Saudita o Turchia, di farsi carico da soli del peso di quei pantani geopolitici.
È in corso un’analisi su costi benefici anche riguardo al Jcpoa, l’accordo con l’Iran per il congelamento del programma nucleare. La Russia ha chiesto garanzie sull’evitare che le ripercussioni dell’invasione ricadano sul tentativo di ricomposizione dell’intesa in corso da mesi. Gli Stati Uniti potrebbero accettare questa compartimentazione limitata alle attività in esse al Jcpoa, sia perché sono da troppo tempo impelagati con le trattative per ritornare nell’intesa, sia perché gli alleati mediorientali potrebbero subire gli effetti di un aumento di aggressività iraniana se il tentativo di rinnovare l’accordo dovesse saltare bruscamente.