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Guerra fredda sui metalli critici. Gli Usa si svincolano da Pechino

Gli Stati Uniti puntano ad aumentare la produzione domestica di materiali critici per le tecnologie low-carbon, dalle batterie ai magneti. L’obiettivo: svincolarsi dalle filiere controllate da Pechino. Il contesto, tra il conflitto in Ucraina e la lunga competizione con il rivale cinese, sembra favorire il reshoring per ragioni di sicurezza…

Che fossimo entrati in una nuova era della globalizzazione, forse, lo avevamo percepito già con la pandemia. Crisi delle catene logistiche, stop alla produzione, ricorso massiccio agli strumenti digitali, e in seguito ingenti iniezioni di liquidità da parte delle banche centrali per far fronte alla recessione globale. Anche in un’ottica di lungo termine, con investimenti mirati nella transizione energetica ed ecologica.

La guerra in Ucraina ha sconvolto ulteriormente il contesto, gettando ulteriori incertezze e volatilità sui mercati, specialmente quelli legati alle materie prime. Le commodities sono state per lungo tempo tra i “beni” che hanno più beneficiato di filiere lunghe, just in time e crescente finanziarizzazione. Dopo il terzo “superciclo” inaugurato dall’ascesa industriale ed economica della Cina ad inizio millennio – in contemporanea con la sua entrata nel Wto – ci eravamo abituati ad un periodo ribassista dei prezzi. Oggi, quegli equilibri sono saltati e non solo i prezzi sono a livelli preoccupanti, ma lo è anche la disponibilità materiale della supply, di fronte ad una domanda sì trainata dai desideri di de-carbonizzazione, ma la cui geografia dipenderà da tempi e intensità della competizione industriale su scala globale.

A confermare il cambio di passo, è stato anche Larry Fink, CEO di BlackRock, nella consueta lettera annuale agli shareholders. “L’invasione russa dell’Ucraina ha posto fine alla globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi tre decenni”, ammette, foriera di un “susseguente decoupling dall’economia globale, in grado di forzare aziende e governi in tutto il mondo a rivalutare le loro dipendenze e rianalizzare le loro attività produttive e di assemblaggio”. Tra le sfide evidenziate, la transizione energetica: “Dobbiamo considerare cosa questo significhi per le materie prime su cui le fonti di energia e le tecnologie pulite dipendono”.

Sulle implicazioni, a Washington hanno le idee chiare, come ha svelato il rapporto di giugno 2021 della Casa Bianca sulle supply chain. Decenni di delocalizzazioni, disinvestimenti nel settore minerario, un tempo fiorente negli Stati Uniti, hanno lasciato la base industriale americana esposta alle vulnerabilità di lunghe filiere e dipendente dall’estero per le importazioni nette di grafite, manganese, terre rare (100%), vanadio (c.a. 90%), e a seguire in misura decrescente antimonio, cobalto, litio – estratto per l’80% tra Australia, Cile e Cina, con quest’ultima che controlla le fasi mid-downstream della catena del valore – e infine rame e nickel. Una situazione insostenibile nel bel mezzo di una transizione epocale che rischia di lasciare indietro imprese e lavoratori.

E, soprattutto, alla mercé della volatilità, potenzialmente, strutturale del mercato. A dirlo è Wood Mackenzie, il quale ha avvertito che la guerra in Ucraina ha lasciato “un segno indelebile sui alcuni mercati delle commodities”. Come ha dimostrato il rally furioso del nickel che ha sconvolto il trading alla London Metal Exchange, piazza simbolo della globalizzazione 2.0. Stiamo dunque assistendo all’inizio di un “ri-orientamento prolungato del commercio russo dall’Europa alla Cina e l’India, e di una carenza di partecipazione occidentale nel settore minerario e dei metalli in Russia”. In una parola: decoupling.

Una situazione emergenziale che, secondo le indiscrezioni, indurrà il presidente Joe Biden a ricorrere al Titolo III del Defense Production Act (DPA) – misura legislativa per la prima volta attivata da Truman durante la guerra di Corea e da Donald Trump nel recente passato – per consentire alle compagnie minerarie di accedere a finanziamenti federali dell’ordine di $750 milioni. L’obiettivo sarebbe quello di aumentare le capacità produttive americane di litio, nickel, grafite, cobalto e manganese, oltre a rafforzarne la raffinazione per gli input cruciali delle batterie per gli EV e per lo stoccaggio di energia elettrica.

Più che di prestiti per nuovi impianti, tuttavia, si farebbe riferimento a migliorare quelli esistenti in un’ottica di produttività e sostenibilità ambientale e sociale. Quest’ultima una priorità di una buona parte dei democratici al Congresso. Tuttavia, la questione è filtrata soprattutto in un’ottica di sicurezza nazionale, come dimostra una lettera firmata da un gruppo bipartisan di senatori – Joe Manchin, democratico della West Virginia, e i repubblicani Lisa Murkowski, James Risch e Bill Cassidy – indirizzata alla scrivania di Biden per accelerare il ricorso al DPA e affrontare la crisi delle filiere dei materiali critici.

Si tratterebbe di un passaggio necessario per implementare il pacchetto sulle infrastrutture, peraltro affossato al Congresso dallo stesso Manchin lo scorso gennaio. Già 6 miliardi di dollari erano stati inclusi per sviluppare una filiera per le batterie elettriche in America, cifre che avevano riscontrato l’appoggio incondizionato dell’industria mineraria statunitense che ora applaude il “forte segnale” che l’amministrazione Biden lancerebbe sul mercato con il ricorso agli strumenti pubblici, il commento di Rich Nolan, Ceo della National Mining Association sul Washington Post.

Si tratta di misure che si aggiungono a quelle in corso d’opera, tra cui l’ipotesi di ricorrere allo stoccaggio strategico di alcuni materiali essenziali per l’industria della Difesa, tra cui le leghe e i magneti di terre rare, e ai finanziamenti già copiosi del Pentagono alle aziende americane, tra cui MP Materials.

Restano da capire i fragili equilibri politici interni, dal momento che l’attività estrattiva è stata storicamente correlata a disastri ambientali ed oggetto di forte scrutinio dell’Environmental Protection Agency (EPA). Trovare la giusta armonia tra le necessità impellenti di una maggior autonomia industriale e le priorità dell’amministrazione di accompagnare questo revival con criteri di sostenibilità sarà una sfida chiave.

“Siamo già molto indietro. Ma in generale, questi fattori [di sicurezza e di aumento della domanda n.d] hanno la potenzialità di far rivivere il settore minerario negli Usa” ha commentato John Dowd, Ceo di GoGreen Investments, una società che gestisce un portfolio di investimenti sulla transizione energetica. “La sfida più importante, sarà gestire le politiche anti-sviluppo. Se non riusciremo a spezzare lo stallo politico, non saremo in grado di capitalizzare questa opportunità, e questo potrà impattare la nostra economica nel lungo termine”, ha chiosato su Axios.

Si tratta di questioni affrontabili anche in un’ottica transatlantica, vista la compattezza indotta dal conflitto ucraino, tra Unione europea e Usa, e le mutue vulnerabilità sul fronte industriale. Che sia diventata l’occasione per un più ampio riassestamento commerciale, anche sul fronte delle materie prime?

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