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Kiev è salva. Putin ha fallito il progetto iniziale

Gas e rubli, che succede se Mosca chiude i rubinetti?

Putin, ritirandosi da Kiev, ha perso la guerra sul piano della narrazione. L’invasione era stata raccontata come una missione per denazificare l’Ucraina e riunire russi e ucraini sotto un unico popolo: è rimasta una lotta per qualche chilometro in più di Donbas

Vladimir Putin ha perso (a) Kiev. La capitale ucraina è libera dalle truppe di invasione russe e così il suo ampio oblast, l’hinterland provinciale che si estende fino al confine bielorusso lungo il fiume Dnieper. Disgustati dalla violenza animale dimostrata dai soldati russi nei sobborghi come Bucha (un nome che resterà nella memoria e nei paradigmi dei più spietati crimini di guerra) forse sfugge il dato: la principale delle linee di attacco russe è obliterata.

Per quanto comprensibile della spedizione d’attacco di Mosca, la presa di Kiev doveva essere l’obiettivo principale e iniziale. Entrare in Ucraina e decapitare la “giunta nazista”, così la chiama il Cremlino, doveva essere il modo con cui prendere in mano il Paese e arrivare dritti, con forza, anche a cuori e menti degli ucraini. Magari instaurando un governo di transizione e poi un esecutivo fantoccio attraverso cui dominare il Paese.

Tutto fallito, perché l’Ucraina ha reagito – anche contro chi quaranta giorni fa chiedeva una resa davanti alla sproporzione di forze.

Una vicenda che conferma la qualità della reazione e il valore tattico-strategico della presa di Kiev l’ha raccontata il Wall Street Journal, che ha svelato un dettaglio non da poco: la Cia avrebbe fornito all’intelligence militare ucraina informazioni sulla direttrice di attacco russo verso l’aeroporto di Hostomel, situato a pochi chilometri dalla capitale. Là le truppe aviotrasportate russe si sono paracadutate con l’intenzione di conquistarlo rapidamente e usarlo come punto di lancio (e dunque logistico) dell’attacco a Kiev.

L’informazione fornita dagli americani ha permesso all’Ucraina di rafforzare le linee difensive sullo scalo. Dopo l’incursione del 24 febbraio, una delle primissime dell’intera invasione, i combattimenti sono stati portati avanti per giorni, con i russi che avevano fatto scendere nella zona i sanguinari macellai ceceni e dispiegato alcune unità di forze speciali. Attacchi e contro-attacchi andati avanti fino al 16 marzo, quando gli ucraini hanno ripreso il controllo generale dell’area.

Quella difesa suggerita da Washington non ha permesso ai russi di stabilire a Hostomel il ponte aereo sperato, e dunque l’informazione della Cia sarebbe stata vitale per salvare Kiev (sul ruolo svolto dagli Stati Uniti anche a livello tattico, con la condivisione di intelligence e l’intercettazione di comunicazioni tra i russi, ci sarà molto da approfondire, ma la sensazione è che sia stato piuttosto importante).

Mentre questo articolo viene scritto (la mattinata di lunedì 4 aprile), arriva la notizia che anche Sumi, verso oriente (intorno a Kharkiv), è stata liberata, così come Crnmihiv e tutto il resto del nord dell’Ucraina, che ora è attanagliata dalla presa russa solo (si fa per dire) nella fascia nord-sud orientale. A ovest Makariv è libera e anche l’autostrada M-06, che corre per chilometri e chilometri da Leopoli a Kiev, è completamente libera dagli invasori.

Si ricorderà che quattro settimane fa si raccontava di un ingresso a Kiev che poteva essere questione di ore se i russi fossero riusciti a sfondare le difese. Non lo hanno mai fatto, e si sono trovati costretti a un ripiegamento, un ridimensionamento degli obiettivi per poterli poi capitalizzare al tavolo delle future trattative.

Non c’è da fidarsi di chi fino ai giorni prima dell’inizio dell’invasione dichiarava di non aver nessuna intenzione bellica sull’Ucraina e adesso denuncia “fake news occidentali” sul massacro di Bucha (come detto dal ministero della Difesa russa), e dunque non sarebbe stupefacente se nuove ondate dovessero arrivare: ma per ora la situazione è questa.

La principale sconfitta di Putin è narrativa: se la missione era iniziata con l’obiettivo della “denazificazione” di Kiev (diceva il Cremlino) per riunire russi e ucraini sotto un “unico popolo” perché tale “sono”, spiegava il presidente russo, ora – a missione fallita – Mosca si trova a combattere per prendere fette di territorio del Donbas, magari a sud verso Mariupol e a nord su Karkhiv. Kiev sarà forse costretta ad accettare perdite territoriali, ma come potrà il capo del Cremlino giustificare al mondo e alle sue collettività di aver trasformato quella che voleva raccontare come una guerra giusta in un macello, solo per qualche chilometro quadrato in più di Ucraina?

Oltretutto, il fallimento del progetto iniziale si è portato con sé ripercussioni durissime. La reazione occidentale è stata pesante sull’economia, come noto; le forze armate di quella che intende raccontarsi come una grande potenza hanno dimostrato tutti i loro lati negativi. E adesso, ritirate con perdite (ingenti) da Kiev, difficilmente quelle unità saranno disponibili per altri ri-dispiegamenti rapidi. Servirà riorganizzarle (forse proprio ricostruirle in alcuni casi) e rifocillarle in tutti i sensi.

La nuova fase di guerra che ufficialmente si apre questa settimana non sarà meno dura, ma sarà diversa. Fallito il progetto russo iniziale, ora si combatte per una sorta di Super Donbas, dove molto dipenderà anche dalla motivazione ucraina – che pare comunque alta. Poi dalla tipologia di rinforzi che arriveranno a Kiev: ieri il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha detto che per ogni carro armato russo ci saranno dieci missili anti-carro occidentali forniti all’Ucraina, in un’iperbole funzionale di certi intenti. Poi dipenderà dall’approfondimento delle misure ritorsive dell’Europa, le nuove sanzioni di cui si sta parlando fino al taglio delle forniture di gas russo.

Comunque andrà per Putin diventa sempre più difficile raccontarla come una vittoria ai russi, tanto quanto far rimanere credibile la sua narrazione di potenza davanti alla Comunità internazionale.


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