Mentre Putin agita lo spettro del blocco delle forniture di gas, uno studio commissionato dall’associazione europea dei produttori dei metalli non-ferrosi lancia l’allarme: l’Europa rischia severe carenze di materie prime critiche cruciali per il dispiegamento delle tecnologie rinnovabili in diversi scenari nei prossimi decenni. Servono interventi urgenti per non replicare gli errori del recente passato
Per certi versi la guerra in Ucraina, oltre a rappresentare un game-changer per l’architettura di sicurezza europea, si sta dimostrando un vero turning point per il futuro assetto geopolitico del continente e non solo. In primo luogo, assistiamo alla politica di potenza della Russia di Vladimir Putin, convinta di poter tenere sotto scacco la “Vecchia Europa” con la minaccia, già divenuta realtà per Polonia e Bulgaria, del taglio delle forniture di gas qualora il coinvolgimento europeo dovesse farsi ancor più sostenuto. E che ci mostra, mai come oggi, quanto la dipendenza energetica sia diventata, di fatto, uno strumento che si allinea agli obiettivi militari russi.
Oggi, in termini anglosassoni le interdipendenze finanziarie, energetiche e commerciali possono diventare weaponized, ovvero capaci di arrecare danni drammatici ai sistemi-Paese. L’Europa, in questo senso, seppur aggredita geograficamente sul suo fronte orientale, è comunque in prima linea. Lo shock che uno stop completo alle forniture di gas comporterebbe sui mercati e per l’industria europea sarebbe pari, se non peggiore, alla crisi del 1973 conseguente la guerra dello Yom Kippur. Lo scenario ha già mobilitato i governi europei e la Commissione a preparare e a adottare misure straordinarie per far fronte ad una possibilità che ogni giorno che passa si fa più concreta.
Perché la probabilità di un esito “favorevole” della guerra, che possa essere quantomeno accettabile per l’integrità territoriale e la sovranità dell’Ucraina, non può che alimentare la controparte russa a prendere tutte le misure necessarie – tra cui, appunto, ritorsioni contro gli alleati di Kiev – per scongiurare tale eventualità. È la sottile linea rossa che sembra correre nel dibattito pubblico in Europa: estremizzando, tra la fermezza nel condannare l’aggressione militare e nel supportare l’Ucraina, in nome della democrazia, e la realpolitik di chi vede all’orizzonte non solo una escalation militare su larga scala, ma una crisi energetica non meno devastante per le fondamenta economiche su cui si reggono le nostre società democratiche. In una realtà così complessa, non può esistere una logica binaria che ci consenta di isolarci dalle conseguenze di una scelta monolitica: esiste solo la decisione di come affrontare la realtà in qualunque forma si manifesti.
Rimanendo con lo sguardo sull’Italia, secondo un policy brief della Fondazione Eni Enrico Mattei pubblicato a marzo di quest’anno, in uno scenario di diversificazione delle importazioni nei prossimi 13 mesi e in assenza delle forniture russe, “nonostante l’importante contributo del sistema elettrico, mancherebbero comunque 9-10 miliardi di metri cubi [di gas] per gli altri settori”. Una differenza che potrebbe essere critica per il sistema industriale, oltre ad affiancarsi ad un aumento di prezzo considerevole dell’energia elettrica. “Per questo motivo, misure di razionalizzazione e razionamento sarebbero necessarie per gestire la crisi”, concludono i ricercatori FEEM.
In secondo luogo, siamo immersi in un cambiamento epocale che si trascina da ben prima dello scoppio del conflitto, e che permea molti aspetti della globalizzazione, degli assetti di potere, delle tecnologie del futuro. La guerra ucraina potrebbe essere, in questo senso, un conflitto “costituente”: un termine che i politologi hanno individuato per distinguere, a posteriori, diverse fasi storiche scandite dall’incedere di guerre interstatali a cui sono seguiti differenti ordini internazionali. Senza abusare di questo strumento teorico, si potrebbe vedere nell’attuale conflitto, e soprattutto nelle ripercussioni sull’energia e i mercati delle materie prime, un momento in cui maturano non solo la consapevolezza di entrare in una nuova fase, ma anche gli strumenti per provare ad anticipare le crisi del futuro. E la prossima potrebbe essere dietro l’angolo.
Secondo uno studio commissionato da Eurometaux, gruppo che riunisce gli industriali nel settore dei metalli, (tra cui i colossi globali del mining come Glencore e Rio Tinto) e del riciclo, l’Unione europea rischia una carenza massiccia di materie prime critiche per le tecnologie rinnovabili, e dunque future dipendenze da fornitori instabili. L’analisi, pubblicata questo lunedì e condotta da un gruppo di ricercatori afferenti all’Università Cattolica di Leuven, in Belgio, è la prima del suo genere nel quantificare le necessità materiali dell’Ue per raggiungere la neutralità climatica e i desideri di maggior autonomia strategica nei settori industriali cruciali per il Green Deal.
A partire dalle stime dell’International Energy Agency, che a maggio 2021 aveva pubblicato un denso rapporto sull’intensità materiale della transizione energetica a livello globale, lo studio dell’associazione con sede a Bruxelles ha quantificato la domanda di metalli e materie prime critiche in uno scenario in cui l’Ue si farebbe carico di una maggior quota nella produzione di tecnologie come batterie al litio, pannelli fotovoltaici e magneti permanenti, essenziali per i motori elettrici dei veicoli BEV e i generatori delle turbine eoliche. Se l’obiettivo finale è proprio di ridurre la dipendenza energetica dalla Russia, svoltando rapidamente nella direzione delle energie rinnovabili, lungo il percorso esiste il rischio di uno scontro frontale con la mancanza di materie prime.
“La transizione energetica globale è ad alta intensità di metalli”, si legge nell’introduzione del rapporto. “I piani dell’Europa di aumentare la produzione delle tecnologie per l’energia pulita aumenterà la sua domanda per un’ampia gamma di metalli”. Principalmente, litio, cobalto e terre rare. L’aumento esponenziale della domanda dei primi due al 2050 (rispettivamente 3,500% e 330% rispetto al 2020) è al contempo affiancato da numeri vertiginosi per materie prime più note: alluminio (5 milioni di tonnellate in più); rame (5 milioni di tonnellate); nickel (400.000 tonnellate); zinco (300.000 tonnellate). Per le terre rare, una maggior produzione europea di magneti indurrà un aumento tra le 7 e le 26 volte l’attuale consumo per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione al 2050. Sono tutti materiali ritenuti essenziali per la fabbricazione delle 11 tecnologie prese in considerazione, tra cui eolico, solare, idrogeno e le reti di distribuzione. Secondo le stime, in assenza di adeguati interventi lungo l’intera filiera (da maggiori capacità minerarie a investimenti nelle attività di raffinazione) l’Europa rischia carenze di materiali già nei prossimi 15 anni.
Uno scenario market-based che non tiene in considerazioni eventi improvvisi e difficilmente prevedibili, come appunto conflitti militari nei luoghi di provenienza della materia prima o embarghi commerciali come accaduto un decennio fa tra Cina e Giappone, con la prima crisi delle terre rare. I rischi più evidenti sul lato dell’offerta sono stati individuati per litio, terre rare, cobalto, nickel e rame, con l’Europa che dipende principalmente dalla Cina per i materiali raffinati dei prime tre elementi e dalla Russia per i secondi, oltre all’alluminio.
Serve un salto di qualità urgente nella pianificazione europea. “Senza un approccio più strategico nel sviluppare capacità materiali primarie e secondarie in Europa, non ci saranno nessuna transizione verde e digitale, nessuna leadership tecnologica e resilienza”, ha tuonato su Euractiv il Commissario al mercato interno, Thierry Breton. In questa direzione, inizia a circolare l’idea, tra i corridoi di Bruxelles, di un Critical Raw Materials Act che possa rafforzare il mercato interno e incentivare nuove soluzioni industriali per le materie prime. In realtà, sono circa dieci anni che a livello istituzionale si tenta di porvi rimedio: dapprima con la Raw Materials Initiative nel 2008, poi con la creazione di specifici organi comunitari dedicati, anche di recente come l’European Raw Materials Alliance, e un monitoraggio scientifico costante del Joint Research Centre. Quello che è mancata è l’implementazione di strumenti per la politica industriale nel settore e, soprattutto, la lungimiranza di vedere in Russia e Cina partner commerciali non così affidabili in un contesto geopolitico globale cha è andato progressivamente ad irrigidirsi.
Come affrontare la crisi delle materie prime all’orizzonte, dunque? Lo studio suggerisce cinque aree di intervento per garantire una produzione di tecnologie rinnovabili in linea con gli obiettivi del Green Deal. I prime tre guardano a maggiori investimenti nel settore minerario e di raffinazione dei metalli nel mercato unico, oltre alla diversificazione delle forniture estere. Si tratterebbe, per le prime due strategie d’intervento, di superare le sfide sociali e ambientali connesse, ma vi è la possibilità, potenziale, di soddisfare tra il 5 e il 55% della domanda europea entro il 2030 di litio e terre rare, sulla base di progetti in corso di sviluppo sul continente.
Infine, il ricorso massiccio all’economia circolare. Il periodo tra il 2035 e il 2040 è, secondo il report, la finestra temporale più matura per raccogliere i frutti degli investimenti nel riciclo e nel riuso di materiali e prodotti a fine vita, per creare un bacino abbastanza ampio per una filiera inversa. La domanda europea di metalli, infatti, potrebbe raggiungere il picco alla fine del 2040: entro un decennio, l’Europa potrebbe così soddisfare tra il 40 e il 75% del suo fabbisogno attraverso le cosiddette “miniere urbane”, una volta chiuso il ciclo di vita per batterie, pale eoliche, motori elettrici ed elettronica di consumo. “Il riciclo è la miglior opportunità per l’Europa per migliorare la sua autosufficienza nel lungo termine”, ma il blocco europeo “deve agire con forza ora per aumentare il tasso di riciclo, investire nelle necessarie infrastrutture e superare i colli di bottiglia economici chiave”.
L’Italia potrebbe e dovrebbe situarsi come attore chiave, dal momento che già vanta indicatori sulla circolarità molto promettenti. Anche la relazione del Copasir sulla sicurezza energetica di gennaio, recentemente approvata, è stata in questo senso molto indicativa: “[…] poiché per l’approvvigionamento di materie prime quali terre rare o di determinata componentistica elettronica è indispensabile rivolgersi all’estero, è auspicabile incentivare la specializzazione delle imprese di settore nel riciclo degli impianti esausti al fine di recuperare materiali e pezzi con il doppio vantaggio di creare una riserva interna utile anche a fini di esportazione”. Un riciclo strategico che potrebbe essere una delle soluzioni, e opportunità industriali, da cogliere per prepararsi ad un mondo meno asservito al gas russo, ma consapevole delle sfide lungo le filiere dei metalli rari.
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