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Ho i soldi per comprare Twitter, dice Musk. Ma c’è chi prepara la poison pill

Mancanza di liquidità, difficoltà nel farsi finanziare, volontà reale di concludere l’operazione: dietro l’operazione dell’uomo più ricco del mondo per acquistare il 100% del social network si nasconde tanto altro. Ieri ne ha parlato in un TED talk, in cui ha ammesso di avere un piano B

Comprare Twitter in contanti? “I could technically afford it”, ha affermato uno spavaldo Elon Musk in una lunga intervista rilasciata a Chris Anderson nella cornice di TED22. Al centro della discussione, neanche a dirlo, la sua offerta “migliore e finale” per comprare le quote che ancora non possiede del social network. Il 4 aprile scorso, Musk è infatti diventato il primo azionista nell’azienda acquistandone il 9,2%. Ma ora vuole l’intero pacchetto. È tutto sul tavolo del board, che deve valutare l’idoneità del prezzo fissato dall’imprenditore: 54,20 dollari per azione (torna sempre il 4.20, numero feticcio per gli amanti della marijuana), per un totale di circa 43 miliardi cash. Il problema, tuttavia, sta proprio qui. Perché Musk ha sì questa disponibilità economica, come da lui affermato, ma non liquida.

Il suo patrimonio è il più alto al mondo e si aggira sui 275 miliardi di dollari. Ma non è in contanti. Le azioni di Tesla e SpaceX rappresentano le fette più importanti del suo portafoglio e, come scriveva tempo fa il Wall Street Journal, circa la metà delle sue azioni nella casa automobilistica funge da garanzia per i prestiti personali di Musk. A volte ha dovuto prendere in prestito cifre non banali per pagarsi le sue spese. Tesla, ad esempio, offre la possibilità ai suoi dirigenti di prendere in prestito fino al 25% delle loro azioni. Visto il valore di quelle del suo fondatore – che si aggira intorno ai 176 miliardi di dollari – per Musk sarebbe teoricamente possibile trovare i fondi necessari per arrivare ai 39 miliardi di dollari che mancano per acquistare il 100% di Twitter. Peccato, però, che al momento ha già “prelevato” 88 milioni di azioni, abbassando così il credito che Tesla può fornirgli.

Potrebbe vendere qualche proprietà, è vero. Eppure, anche in questo caso, dipende da cosa gli è rimasto tra le mani. Nel 2020 annunciava in un tweet che stava vendendo “quasi tutti i beni fisici”, comprese le tre ville in California (75 milioni di dollari in totale) e altre quattro case nel distretto di Bel Air, a Los Angeles. Con parte del ricavato avrebbe affittato un altro immobile, giusto per avere un tetto sotto cui vivere. Non avrà di questi problemi, c’è da scommetterci, ma questa necessità di liquidi spalanca dubbi sull’effettiva possibilità che possa effettivamente sborsare la cifra che ha proposto a Twitter.

Una mano potrebbe arrivargli da chi già investe in Twitter. Come le società di private equity Silver Lake – che tuttavia nell’accordo firmato si era impegnata a non superare il 5% delle quote – o Elliot Managment Corporation o, ancora, ARK Investment Management. L’ultima delle tre, fondata da Cathie Wood,  ha venduto 185.900 azioni da quando il patron di Tesla ha deciso di non entrare nel board di Twitter.

Oppure da Morgan Stanley. Musk l’ha scelta come consulente finanziario e, secondo fonti del Wsj che hanno familiarità con la questione, la banca potrebbe trovare il modo di finanziare l’investimento. Ci sono anche qui ostacoli non proprio piccoli: Morgan Stanley non è famosa per questo tipo di operazioni e, se dovesse coinvolgere banche più grandi, non può farlo con JPMorgan. Come ricorda il New York Times, tra Musk e la banca non corre buon sangue dopo che è stato citato in giudizio per il tweet in cui annunciava di voler privatizzare Tesla (tema su cui è tornato nel corso della chiacchierata con Chris Anderson, prendendosela con i funzionari della Security Exchange Commission, SEC, definendoli those bastards).

Certo è che, per finanziare l’opa su Twitter, per Musk sarà molto più facile trovare uno che la pensi come lui piuttosto che una banca pronta a finanziarlo. Soldi liquidi come garanzia non li ha, lo abbiamo visto, e in poche farebbero affidamento su un’azienda come Tesla vista la sua natura imprevedibile. Basta un tweet del suo capo e le azioni possono salire o scendere con la stessa identica facilità. Se poi l’investimento in Twitter dovesse andare male, i finanziatori lo costringerebbero a vendere azioni Tesla, cosa che potrebbe far precipitare il titolo in una spirale al ribasso.

Perciò, tanto vale provare con qualcuno pronto a sostenere l’idea libertaria di Musk. Uno su cui potrebbe contare (forse) è l’amico Peter Thiel, che ha appena lasciato Meta per passare alla politica. Aiuterà i trumpiani in vista delle elezioni di Midterm del prossimo autunno e con Musk – così come con Donald Trump – condivide la necessità di un Internet differente, più libero e senza che ci sia qualcuno che sceglie cosa sia giusto o no. Tutti concetti ampiamente ripetuti da Musk durante la sua intervista a TED e che possono essere sintetizzati con una parola ormai inflazionata: free speech.

Lo stesso che spaventa il board di Twitter. La rivoluzione che vorrebbe imporre il futuro proprietario è radicale e si avvicina molto – per non dire che è la stessa cosa – al Web 3.0 tanto amato anche da Jack Dorsey. Nelle fantasie di Musk, il social dovrebbe avere un algoritmo “open source”, ci dovrebbe essere un “edit button” per gli utenti e questi dovrebbero essere in grado di tollerare anche ciò che non gli va bene (concetto che secondo lui è alla base della libertà di parola). Certo, Twitter è “vincolato dalle leggi del Paese in cui opera, quindi ovviamente ci sono delle limitazioni alla libertà di parola negli Stati Uniti e Twitter dovrebbe rispettare tali regole”, ha spiegato ad Anderson. Tuttavia, la spinta per rafforzare la democrazia nel mondo dovrebbe partire proprio da queste piattaforme, diventate vere e proprie città virtuali dove i cittadini trascorrono il loro tempo.

Si sa, ogni grande cambiamento si porta dietro anche lo scetticismo di chi è ancora, a torto o ragione, nei vecchi schemi. Per questo, c’è chi nel cda sta studiando una poison pill che limiti l’entità massima delle sue quote al 15%, scrive il Wall Street Journal. Chi dovrà valutare l’offerta seguirà un “processo rigoroso”, ha assicurato il ceo Parag Agrawal assicurando che l’azienda “non è tenuta in ostaggio” da nessuno.

Come andrà a finire è difficile dirlo, specie quando in mezzo c’è Elon Musk. Le azioni in borsa, pur essendo ben al di sotto del prezzo offerto, sono scese del 2% dopo l’annuncio. Segno di come nel mercato non tutti sono speranzosi nel lieto fine. C’è anche chi si è parecchio arrabbiato per il comportamento del proprietario di Tesla, il quale sa di aver aperto una crepa non da poco tra i soci di Twitter. Davanti a un eventuale rifiuto della sua offerta da parte del board, si dice pronto a vendere anche il 9,2% che ha già comprato, provocando quantomeno uno scossone. Musk è un tipo a cui non piace perdere e lo ha ribadito anche ad Anderson. Alla domanda se avesse o meno un piano B in caso la sua offerta non fosse accettata, ha risposto: “There is”, senza svelare altro. Forse, nella sua concezione, il piano A (“accettate o me ne vado”) è già il massimo della diplomazia a cui può arrivare.

(Foto da TED)


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