La guerra russa in Ucraina spezza il gruppo di Visegrad, il neutralismo e l’ambiguità tirano la volata a Orban e Vucic in Ungheria e Serbia. Con Bulgaria e Slovacchia, si fa spazio un nuovo conglomerato filorusso in Est-Europa di cui Putin aveva bisogno
C’erano una volta i fantastici quattro. Ci sono ancora, ma hanno un altro nome. La guerra russa in Ucraina sta cambiando volto all’Europa dell’Est. Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, Slovacchia, per trent’anni pilastri del “Gruppo di Visegrad”, ora vanno in ordine sparso. Al loro posto un altro gruppo va formandosi. La linea di faglia si chiama Vladimir Putin.
Di fronte all’aggressione, c’è chi ha rinnegato le vecchie sintonie con il Cremlino e chi invece le ribadisce, agli alleati e ai suoi elettori. È il caso di Viktor Orban e Aleksandar Vucic, reduci vittoriosi da due appuntamenti elettorali del week end, in Ungheria e in Serbia, che peseranno non poco sul bilancino della crisi.
Non perché stupiscano. La vittoria di Orban, al quarto mandato, era stata prevista con anticipo nonostante la battagliera e inedita coalizione di sei partiti di opposizione capeggiata da Peter Marki-Zay. Lo stesso vale per Vucic, rieletto con più del 60% delle preferenze.
A rilevare, semmai, è che la guerra in Ucraina è stata protagonista delle rispettive campagne elettorali. Sia il leader magiaro che il presidente serbo hanno promesso di tener fuori i rispettivi Paesi dalla guerra strizzando l’occhio a Putin. Certo, Orban ha dei limiti che Vucic non conosce. Se il secondo si è spinto su posizioni di quasi-sostegno dell’invasione russa e ha rifiutato categoricamente di imporre sanzioni contro Mosca, il primo, vincolato dall’appartenenza all’Ue e alla Nato, ha dovuto votare le misure restrittive, pur negando il transito di armi Nato verso Kiev sul territorio ungherese.
Il punto è che la guerra russa e la neutralità benevola verso il Cremlino diventano oggi più di ieri vettori della politica interna, oltre che estera, di questi Paesi. Orban può contare su altri quattro anni saldamente al comando. Il voto dimostra che di veri contender non ce ne sono, complice lo strapotere del governo e degli alleati del premier nel mondo dei media che riduce all’osso lo spazio per la contestazione.
Sul piano diplomatico però il leader ungherese perde pezzi. Da quando è al potere ha fatto dell’alleanza di Visegrad un salvavita, utilissimo per restare nella famiglia Ue facendo valere le proprie ragioni con una sola voce, ad esempio sulla gestione dei migranti. Traccheggiando con Putin dopo l’invasione in Ucraina però ha spezzato in due il fronte. Polonia e Cecoslovacchia, memori della dominazione sovietica, sono in prima linea a chiedere a Ue e Nato di usare un pugno molto più duro con Putin, tra gli alleati più fedeli su cui possa contare il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Non a caso entrambi i Paesi hanno chiesto di cancellare il vertice dei quattro di Visegrad in programma per il 30-31 marzo. Un messaggio a Orban: così è troppo.
Se il patto quadripartito sta andando in frantumi, non manca chi, in Est Europa, è pronto ad allungare la mano. A cominciare dalla Serbia di Vucic, il Paese più filorusso sul suolo europeo. In un’intervista ad Euractiv, il direttore dell’Istituto della sicurezza internazionale (Isi) a Belgrado Orhan Dragas ha detto che se oggi Putin si candidasse alla presidenza serba, otterrebbe il 70% delle preferenze. Un’esagerazione forse, ma nel solco del verosimile.
Da anni Vucic gioca su due fronti. Da una parte, forte di un rapporto secolare, l’alleanza con la Russia, che ha sempre condannato l’intervento della Nato a Belgrado nel 1999, ferita apertissima nell’opinione pubblica serba, e sostiene le rivendicazioni serbe sul Kosovo. Dall’altra l’Ue, in cui la Serbia vuole entrare da tempo, anche se oggi le chances sono ridotte all’osso. La politica del doppio forno non potrà durare a lungo, ha spiegato in un’analisi su Formiche.net il professore Igor Pellicciari.
Ungheria e Serbia sono dunque i veri bastioni europei di Putin, cementati da un’intesa personale e politica sempre più esplicita tra Orban e Vucic. Ma al team si avvicinano altri due Paesi della regione: Bulgaria e Slovacchia.
A Sofia la guerra, che lambisce i confini bulgari sul Mar Nero, si è trasformata in un terremoto per il governo del liberale Kiril Petkov. A fine febbraio il primo ministro ha dovuto licenziare il suo ministro della Difesa: si rifiutava di parlare di “invasione” russa. Un mese dopo rimane in bilico: ha votato a favore delle sanzioni Ue, ma si è opposto a mandare armi a Kiev e a bandire le importazioni di energia da Mosca. Adesso tentenna sull’altra partita chiave dello scontro fra Ue e Russia: cedere o meno alla richiesta-ricatto di Putin di pagare le importazioni di gas in rubli. Buona parte dei Paesi Ue ha già risposto “no grazie”, a Sofia invece regna l’ambiguità.
La stessa che ora aleggia in Slovacchia, l’altro membro di Visegrad diviso sul da farsi. Lunedì il primo ministro Eduard Heger è corso ai ripari, smentendo il suo ministro dell’Economia Richard Sulik, che nei giorni precedenti aveva dato il suo assenso al pagamento in rubli perché “il flusso di gas non si può fermare”. Segno che anche qui, come in Bulgaria, la lobby russa fa proseliti nel governo. Tra i litiganti, il Cremlino gode. Mentre il patto Visegrad va alla deriva, Putin potrebbe aver trovato i nuovi “fantastici quattro” di cui aveva bisogno in Europa.