La transizione ai veicoli elettrici spinge i colossi dell’automotive ad assicurarsi le supply chain dei materiali chiave. Litio, cobalto, terre rare: si tratta di investimenti con partnership business-to-business con i giganti dell’industria mineraria. Un’alleanza che riscriverà le filiere e i rapporti di forza globali…
Ormai siamo abituati ai suoi tweet roboanti, e la recente notizia dell’initial public offering (IPO) per acquistare la piattaforma social non potrà che generare ulteriori discussioni. Resta il fatto che quando il visionario Elon Musk digita i tasti del suo smartphone, dall’altra parte del mondo si verifica uno tsunami. E questo è stata la reazione di investitori, imprenditori e analisti, che guardano con apprensione e fiducia alla rivoluzione elettrica del settore automobilistico, al suo tweet della settimana scorsa:
“Il prezzo del litio è salito a livelli folli! Tesla potrebbe effettivamente dover entrare nel settore minerario e nella raffinazione direttamente su larga scala, a meno che i costi non migliorino. Non c’è carenza del minerale, poiché il litio è quasi ovunque sulla Terra, ma il ritmo di estrazione/affinamento è lento”.
In quattro righe Musk ha riassunto i principali ostacoli che stanno di fronte alla transizione ai veicoli elettrici, e presentato un’opzione per poterla affrontare. Non tradiscano i risultati sorprendenti del gigante elettrico, che nel primo trimestre del 2022 ha registrato un record di vendite rispetto agli anni precedenti.
La sfida è a lungo termine, ed è quella dei materiali critici: mediamente abbondanti a livello geologico, ma che sono ‘scarsi’ quando domanda e offerta sul mercato faticano ad incontrarsi. I motivi sono molteplici: i cicli d’investimento per nuovi siti estrattivi sono lenti e sensibili alle fluttuazioni dei prezzi, le difficoltà di aumentare le capacità di raffinazione sono notevoli soprattutto in periodi di scarsa elasticità lungo la filiera, oltre che di regolamentazioni ambientali stringenti, mentre la domanda resta fortemente influenzabile rispetto ai target climatici, che oscillano tra obiettivi stringenti al 2050 e preoccupazioni sull’impatto socio-economico della transizione industriale del settore. Il tutto senza considerare la variabile tecnologica: oggi e domani parliamo di batterie agli ioni di litio, ma dopodomani? Di fronte alle difficoltà di approvvigionamento, la scarsità potrebbe stimolare nuove soluzioni. Ad ogni modo, tante variabili, poche certezze. Una su tutte: ci servirà molto più litio di quanto ne produciamo oggi.
Secondo le stime di Benchmark Mineral Intelligence (BMI), se tutti i veicoli venduti nel 2040 fossero elettrici, parleremmo di una domanda da 8.400 GWh di batterie al litio. E per raggiungere gli obiettivi stabiliti dalla Dichiarazione della COP26, a Glasgow, entro il 2040 necessiteremmo di oltre 7 milioni di tonnellate di litio (LCE – lithium carbonate equivalent), circa 17 volte la produzione di litio nel 2021.
Solo nel 2021, i prezzi del litio sono aumentati del 480%: un rally impressionante se pensiamo che nel 2012 una tonnellata di LCE si vendeva a 4.450$, mentre oggi si aggira sui 78.000. Anche altri metalli molto importanti per i produttori di batterie, come nickel e cobalto, hanno registrato significativi aumenti dei prezzi. Un combinato disposto che sta invertendo un trend ormai decennale, ovvero l’abbattimento dei costi delle batterie, cruciale per rendere i veicoli elettrici (EV) competitivi sul mercato a svantaggio di quelli a combustione. Dai $280/kWh del 2015, ai $115/kWh. Ma questo prima che il Covid-19 cambiasse le carte in tavola sulla salute della globalizzazione. Oggi, le materie prime contano per circa l’80% dei costi per la produzione delle batterie, un aumento importante rispetto al 40% del 2015 secondo BMI. Questo perché mentre si sono ottimizzati i processi industriali ed efficientate le performance delle batterie, i costi fissi della materia prima sono diventati preponderanti.
E mentre la domanda crescerà, l’offerta potrebbe inseguire molto lentamente, imprimendo una pressione strutturale sui prezzi. Verso la fine del decennio, gli OEMs (original equipment manufacturers) potrebbero dunque ritrovarsi senza forniture sufficienti di materiali per le batterie se gli investimenti in nuovi siti estrattivi non dovessero allinearsi, in tempi ragionevoli, con i segnali a valle della catena del valore. Ed ecco la soluzione di Musk: trasformare la stessa Tesla in un diretto investitore nel settore delle materie prime. Per integrare verticalmente la supply chain, controllare i vari segmenti e assicurarsi, attraverso contratti a lungo termine, le forniture necessarie. Ma non si tratta, in realtà, di un’idea out-of-the box. In un joint statement, Simon Moores, ceo di Bmi, e Morgan Bazilian, direttore del Payne Institute for Public Policy (istituto di ricerca della Colorado School of Mines) hanno confermato come i produttori di auto elettriche siano ormai consapevoli di doversi inserire nel business minerario, per costruire filiere dove ancora non esistono e così affrontare, di petto, la crisi di mercato. Secondo i due esperti, lo stock di materiali previsto non consentirà ai produttori di EV di andare oltre il 2030, oltre a segnalare una mancanza di investimenti in impianti di processazione. Serve approfondire le strategie aziendali guardando più a monte della filiera, attraverso partecipazioni.
“Per avere il massimo potere industriale è necessario possedere le miniere, in parte o per intero. Questo è l’unico modo per garantire la materia prima per produrre batterie e veicoli elettrici”. Un problema che sembra riportarci indietro di un secolo quando, di fronte ad una carenza di gomma sul mercato negli anni Venti, Henry Ford tentò, senza successo, di risolvere il problema investendo direttamente in nuove piantagioni in Brasile. Basterà?
E qui Tesla si dimostra, ancora una volta, azienda dalle larghe vedute. Già nel 2020, durante il Battery Day, Musk colse di sorpresa il settore industriale confermando che Tesla aveva acquisito i diritti per lo sfruttamento dei giacimenti di litio in Nevada grazie ad un piano minerario completamente sostenibile. Ma è alla fine di marzo 2022 che, secondo alcune indiscrezioni riportate da Bloomberg News, arriva la conferma che il gioiello di Elon Musk stesse effettivamente consolidando le sue alleanze con il settore minerario. Si parla di un accordo a lungo termine con Vale, gigante minerario brasiliano, per la fornitura di nickel – che Musk ritiene particolarmente critico per il suo business e non senza motivo, viste le problematiche sul mercato anche per via della guerra in Ucraina – dai siti in Canada, che seguirebbe quelli già siglati con BHP per il nickel australiano, con Prony Resources nella Nuova Caledonia e gli accordi con fornitori cinesi di litio, tra cui Ganfeng Lithium, e australiani come Liontown Resources e Core Lithium, aziende junior ma dalle prospettive interessanti. E poi il cobalto, con Tesla che ha stretto una partnership con Glencore, multinazionale mineraria tra le più importanti al mondo e attiva soprattutto nelle miniere congolesi.
Ma non solo Tesla. Il mercato nordamericano, tra Stati Uniti e Canada, è tutto fuorché povero di risorse. Sono mancati la visione e gli investimenti negli ultimi vent’anni di delocalizzazioni, ma oggi la musica sta cambiando, come dimostrano le iniziative del governo americano. Anche General Motors, già mossasi per assicurarsi le forniture di magneti e terre rare, si è rivolta a Glencore un accordo pluriennale di fornitura di cobalto dalle sue strutture minerarie di Murrin Murrin, in Australia. Il cobalto processato verrà utilizzato per produrre i catodi delle batterie di GM, con l’obiettivo e l’impegno di creare una supply chain trasparente e sostenibile. I due partner sono infatti membri della Responsible Minerals Initiative (RMI), piattaforma multi-stakeholders che si occupa di monitorare le operazioni in accordo con le direttive Oecd sui flussi commerciali di minerali. Entro il 2025 GM vuole lanciare sul mercato nordamericano 1 milione di veicoli elettrici, lanciando la sfida alla diretta concorrente Tesla.
In conclusione, stiamo assistendo ad un potenziale cambio di paradigma per il settore automotive. Non solo filiere più corte, regionalizzate, ma meno sfibrate tra i vari segmenti. Integrare la filiera potrebbe rivelarsi l’unica strategia possibile per assicurarsi le forniture, controllare i prezzi e così proporsi, di fronte agli investitori, come un asset solido e dunque spendibile in un’ottica di decarbonizzazione. A costo di creare un conglomerato industriale talmente verticalizzato (mine-to-market) da esercitare non solo potere economico, ma anche geopolitico. Controllando i flussi delle risorse, da sempre prerogativa degli stati almeno dal punto di vista della governance, essenziali per gli obiettivi di sviluppo di questo secolo.