L’operazione militare lanciata dalla Turchia nel Kurdistan iracheno si interseca con l’invasione russa in Ucraina. Mosca e Ankara cercano spazi, muovono interessi, spostano i bilanciamenti
La Turchia ha lanciato in questi giorni una nuova offensiva nel Kurdistan contro le forze curde del Pkk o collegate a esso — considerate un’organizzazione terroristica dal 1984. Ankara approfitta degli spazi concessi dall’invasione russa in Ucraina per continuare nelle sue attività contro i curdi. A Mosca la vicenda viene raccontata dai media del Cremlino come un doppio standard occidentale. Ma sia turchi che russi devono cercare di evitare sbilanciamenti.
Unità delle operazioni speciali, sostenute da droni ed elicotteri d’attacco, sono coinvolte nell’operazione che va sotto il nome di “Claw-Lock” (segue “Claw-Tiger” e “Claw-Eagle” lanciate dalla Turchia nel nord dell’Iraq nel 2020). L’obiettivo è scovare i rifugi che danno riparo ai miliziani del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) e combattenti affiliati nelle regioni di Metina, Zap e Avashin-Basyan dell’Iraq settentrionale. La campagna militare è stata annunciata pubblicamente dal ministero della Difesa turco, che aggiunge: si è resa necessaria perché il Pkk stava pianificando un attacco su larga scala contro la Turchia. Mercoledì 20 aprile a Bursa, un dispositivo con innesco a distanza ha fatto saltare in aria un pullman che trasportava funzionari della polizia penitenziaria: la responsabilità è stata data al Pkk.
La pianificazione dell’operazione era stata riportata dai media turchi per settimane, che includevano nella narrazione il perché fosse necessaria — d’altronde il Pkk e i suoi alleati siriani hanno colpito molte volte in Turchia. Il presidente Recep Tayyp Erdogan ha messo l’eliminazione dei miliziani curdi in testa alle priorità di sicurezza interna — un modo anche per evitare promiscuità tra il gruppo combattente e il partito curdo, che è una delle sue più vocali opposizioni.
L’attacco nel Kurdistan è stato lanciato due giorni dopo una rara visita in Turchia del primo ministro della regione autonoma irachena, Masrour Barzani, suggerendo che era stato informato dei piani di Ankara. Barzani, dopo i colloqui, aveva annunciato “l’espansione della cooperazione per promuovere la sicurezza e la stabilità” nel nord dell’Iraq. Il governo regionale del Kurdistan è un alleato di Stati Uniti ed Europa, e questo coordinamento permette a Erdogan un ulteriore piano di giustificazione nei confronti dei partner occidentali. Per Barzani l’appoggio con partner occidentali (nei giorni scorsi era anche a Londra) serve per ottenere rassicurazioni contro l’Iran.
La Turchia conduce abitualmente attacchi nella regione curda irachena, dove il Pkk ha basi e campi di addestramento nascosti nell’ambiente montuoso, ostile del Sinjar. Queste campagne, così come quelle nel sud turco e nel nord siriano, sono state anche criticate da Bruxelles e Washington in passato, perché considerate violente e spesso condotte senza preservare eccessivamente l’incolumità dei civili. Baghdad ha inoltre accusato la Turchia di non rispettare l’integrità territoriale e la sovranità del paese.
Ora sulla vicenda pesa anche ciò che sta succedendo in Ucraina. Il ministero degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha dichiarato che l’offensiva turca è preoccupante perché potrebbe creare destabilizzazioni in Medio Oriente e aggiunto di temere per i curdi siriani. Questi sono considerati alleati del Pkk e dunque bersagli legittimi da Ankara, e qui Mosca gioca una carta: i curdi siriani sono stati (e in parte sono ancora) alleati occidentali nella lotta allo Stato islamico, ma quando l’amministrazione Trump ordinò il ritiro dalla Siria furono per certi versi abbandonati e la Turchia ne approfittò per un regolamento di conti col beneplacito di Washington (Ankara aveva sempre detestato quella partnership tra i curdi siriani e le forze anti-baghdadiste). In quell’occasione anche la Russia cercò di trarne vantaggio, ergendosi a sponda protettrice delle istanze curdo-siriane pressando sull’abbandono occidentale (Mosca tratta con i siriani del Rojava anche perché non vuole rogne indipendentiste in capo al regime amico di Damasco).
I media pro-Cremlino, quelli usati per diffondere la propaganda e spingere la narrazione, sostengono che quanto sta accadendo nel Kurdistan iracheno è molto simile alla “operazione militare speciale” russa in Ucraina. Ma l’Occidente affronta le cose con doppio standard, dicono, perché la Turchia è membro Nato e dunque viene giustificata. Allo stesso tempo, se l’Occidente (Ue, Usa, Nato) dovesse decidere di pressare Ankara per uno stop delle operazioni, Mosca si porta avanti con la linea attraverso cui giocare di sponda con i turchi — in funzione anti-occidentale.
La Russia si trova in una posizione delicata, in cui deve necessariamente giocare di bilanciamento, con medio-basso profilo (alzandolo solo a uso interno) e possibilmente passare da honest broker. Se l’operazione turca può essere usata come espediente narrativo anti-occidentale, Mosca sa che non può forzare troppo la mano, perché rischia di perdere contatto con Ankara mentre questa sta muovendosi nel pantano diplomatico per trovare una forma di mediazione sul conflitto ucraino. Allo stesso tempo, Ankara sa che lo spazio diplomatico che si è creata sulla guerra russa in Ucraina può essere usato a proprio interesse; ossia nell’ottenere meno critiche da parte degli occidentali sull’attacco in Kurdistan.
Da non dimenticare poi che i russi hanno accordi nel campo energetico con Erbil, che trova nel Pkk una problematica di sicurezza al punto da rallentarne lo sviluppo. Infine c’è la questione dei siriani: Mosca vuole continuare a tenere il regime assadista limitatamente esposto sulla questione curda.