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La Cina si dissangua. Perché i capitali fuggono da Pechino

Nei primi due mesi dell’anno investitori e fondi hanno disimpegnato 17 miliardi di dollari, certificando il lungo addio alla seconda economia globale. Le ragioni sono più di una e tutte su piani diverse, come racconta un Report Ispi che analizza la fuga dei capitali da Pechino

Le avvisaglie a dire il vero già c’erano. Ora però i numeri si sono fatti impietosi, quasi inappellabili. In Cina è in atto una fuga di capitali come non se ne vedevano da anni, forse decenni. Investitori, fondi, semplici risparmiatori, aziende, una smobilitazione su larga scala che ha toccato i 17 miliardi di dollari negli ultimi due mesi, aumentando la sensazione, ora certezza, che il Dragone si stia lentamente dissanguando. Nelle settimane scorse Formiche.net ha raccontato il lento ma inesorabile abbandono dell’economia cinese da parte degli investitori stranieri, piccoli o grandi che siano.

Le colpe sono molteplici, alcune legate ai problemi strutturali della seconda economia globale, inflazione, debito corporate fuori controllo, scarsa liquidità degli enti locali, altre più di carattere geopolitico se non politico. Ovvero, l’appoggio all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia che, seppur ambiguo e non sempre totale, ha indisposto i grandi capitalisti d’Occidente e poi la fallimentare strategia zero-Covid, tutta lockdown e isteria da contagio che ha messo sottochiave Shanghai, bloccandone lo scalo portuale con tutte le conseguenze del caso sulle catene di approvvigionamento globali.

Ce ne è abbastanza per mollare gli ormeggi e prendere il largo. Ed ecco la cifra della grande fuga. Negli ultimi due mesi, gli investitori stranieri hanno venduto le loro azioni e obbligazioni cinesi per un controvalore di oltre 17 miliardi di dollari, un massimo storico, secondo i dati dell’Istituto di Finanza Internazionale (Iif). Un sell-off, termine tecnico per descrivere un disimpegno azionario e obbligazionario su vasta scala, che segue quasi due anni consecutivi di deflussi netti di portafoglio dalla Cina, incluso il quarto trimestre del 2021, con un deficit del conto capitale e finanziario di 320,6 miliardi di dollari.

Secondo l’Ispi, l’Istituto di studi politici internazionale, è l’obbligazionario che ha sofferto maggiormente: i dati del governo cinese mostrano infatti un ritiro record degli investitori stranieri pari a 5,5 miliardi di dollari di titoli di stato cinesi a febbraio, la più grande riduzione mensile mai registrata, secondo la China Central Depository and Clearing, seguiti un nuovo massimo di oltre 8 miliardi di dollari a marzo.

Dunque, dopo aver aumentato rapidamente la loro esposizione tra il 2014 e il 2018, ora gli investitori stanno abbandonando la Cina su una scala senza precedenti, considerando che l’ultima volta che la Cina aveva sperimentato una simile fuga di capitali era tra il 2015 e il 2017 e aveva richiesto pesanti controlli di capitale per arrestare il deflusso. Lo stesso Iff, ha ricordato l’Ispi, ha parlato di vera e propria fuga di capitali senza precedenti da parte degli investitori esteri, soprattutto perché durante questo periodo non ci sono stati deflussi simili da altri mercati emergenti.

Ma perché tutto questo? Come detto, le ragioni sono più di una e tutte su piani diverse. Innanzitutto, le prospettive di crescita economica interna si sono deteriorate nel primo trimestre del 2022. Sebbene il dato aggregato sul trimestre sia stato accolto come ampiamente positivo (4,8% rispetto al 4,4% atteso), in realtà il mese di marzo ha visto i consumi molto indeboliti rispetto al marzo del 2021. E poi il Fondo Monetario Internazionale ha recentemente tagliato le sue previsioni di crescita per la Cina al 4,4%, dal 4,8%. E poi c’è la situazione, drammatica, dell’intero comparto immobiliare, che da solo vale quasi il 25% del Pil cinese.

Evergrande, ma non solo, ancora oggi non è in grado di pagare i suoi creditori e senza l’aiuto dello Stato difficilmente riuscirà a farlo. Quanto al fronte geopolitico, il protrarsi della guerra in Ucraina e l’inasprirsi delle sanzioni contro la Russia, hanno reso meno improbabile che in un futuro imprecisato anche la Cina possa essere colpita da sanzioni, per lo meno secondarie. Soprattutto, ha chiarito lo stesso Ispi, anticipando le pressioni che nel 2023 Pechino eserciterà su Taiwan in occasioni delle elezioni primarie per favorire il candidato filocinese, il che potrebbe riaprire le tensioni in Asia orientale. E poi, non possono certo mancare gli inquietanti lockdown visti in queste settimane. Secondo gli analisti di Nomura a metà aprile 44 città, che rappresentano il 40% del Pil del Paese, erano in lockdown totale o parziale, con l’economia a rischio crescente di recessione.

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