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Le tech cinesi che voltano le spalle alla Russia

Lenovo e Xiaomi hanno deciso di sospendere le loro vendite in Russia, seguendo così l’azienda di droni DJI Technology che le aveva anticipate due settimane fa. L’indicazione del PCC, tuttavia, rimane quella di non lasciare il mercato russo per una questione di convenienza

Nel silenzio più assoluto, alcune grandi aziende cinesi hanno deciso di tapparsi le orecchie per non ascoltare le richieste di Pechino e, lentamente, abbandonare la Russia. Tra queste figurano il produttore numero uno al mondo di Pc Lenovo, che in termini di vendite nel mercato russo è dietro solo ad Hp, e l’azienda di smartphone e altri device, Xiaomi. Anche il gigante di droni, DJI Technology, ha optato per una misura simile neanche due settimane fa, sospendendo le sue attività nei due paesi coinvolti nel conflitto.

Decisioni che stonano con quanto richiesto dal governo cinese, che dalla guerra in Ucraina spera di ricavare quanto più vantaggio possibile. Per questo, si è opposto alle sanzioni occidentali contro Mosca e ha chiesto alle sue società di continuare come nulla fosse. Eppure la realtà parla di altro. Come scrive il Wall Street Journal, rispetto a febbraio, le esportazioni cinesi verso la Russia nel mese di marzo hanno fatto registrare un calo netto e incontrovertibile: -40% per quanto riguarda quelle sui Pc, -66% per quelle sugli smartphone e, addirittura -98% sulle stazioni base per le telecomunicazioni. A riferirlo sono proprio i dati diffusi da Pechino, che dimostrano quanto in realtà le aziende nazionali temano le ripercussioni delle sanzioni e le minacce che arrivano da Washington.

La pressione degli Stati Uniti affinché la Cina tagli il cordone ombelicale con la Russia è infatti costante e non soltanto nei confronti dei funzionari politici. La paura della Casa Bianca è che i vari software prodotti in America possano finire nelle mani dei russi, aggirando così le regole e andando a rafforzare la difesa del Cremlino. Non a caso la segretaria al Commercio, Gina Raimondo, ha sottolineato la necessità per Mosca di trovare nuovi semiconduttori visto che l’export dagli Stati Uniti e dai suoi alleati è stato dimezzato con l’entrata in vigore delle sanzioni.

Con queste viene esclusa la vendita anche di tutti quei prodotti tech non realizzati sul suolo statunitense ma costruiti con la matrice americana. I chip sono infatti diventati indispensabili per qualsiasi tipo di sviluppo tecnologico ed hanno assunto un ruolo chiave anche nella fabbricazione di materiale bellico. La dimostrazione arriva da Huawei che, da quanto riporta l’azienda russa Beeline (di proprietà dell’olandese Veon), avrebbe fatto recapitare apparecchiature per le telecomunicazioni. La giustificazione che è stata data, però, riguarda una valutazione effettuata nel 2021 che, quindi, è conforme alla legge.

Tuttavia per evitare di violarla, e quindi rischiare a loro volta di finire nel bersaglio, nel momento in cui le sanzioni sono entrate man mano in vigore Lenovo e Xiaomi hanno preferito compiere un passo indietro e bloccare le vendite in Russia, almeno temporaneamente. Non di certo a cuor leggero, dato che portavano enormi benefici (solo due aziende del settore come Hp – già citata – e Samsung le superavano). Probabilmente alcune scorte sono rimaste ancora lì, ma il flusso dalla Cina è diminuito in modo evidente. DJI, invece, l’ha messa su una questione puramente etica, giustificando il suo ritiro con il codice dell’azienda, che produce droni solo per scopi civili deplorando il loro utilizzo nella guerra, dove stanno avendo un ruolo tutt’altro che marginale.

Anche l’Uber cinese, Didi Chuxing, aveva preso una decisione simile, salvo poi essere rimessa sui binari giusti da Pechino che non poteva (e non può) accettare una fuga delle sue aziende dalla Russia: non solo per una questione di opportunità, ma anche perché tradirebbe le sue parole con cui continua a non condannare l’invasione.

Soprattutto, persegue nel suo dialogo aperto con Mosca. Se da una parte ad aprile c’è stata una frenata del 25,9% delle esportazioni generali, peggiorando il -7,7% di marzo, l’import è cresciuto del 56,6% nel giro di un anno, quasi il doppio rispetto al 26,5% del mese precedente. Anche perché, per Pechino, Mosca è sinonimo di energia: da lì arrivano petrolio, gas, carbone e altre materie prime di cui la Cina è sprovvista. Ma deve fare attenzione: le sue aziende energetiche stanno iniziando a interrogarsi sulle conseguenze che può scaturire l’acquisto di partecipazioni in progetti da cui i loro omologhi si stanno tirando fuori. Ragionamenti che si fanno in silenzio, ma che fanno comunque rumore.



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