Il periodo di consultazione lanciato dal presidente Joe Biden è terminato. Serve agire per sviluppare una moneta digitale statale, così da rispondere al mondo che cambia e non perdere terreno rispetto ad altri Paesi. Stesso discorso vale per l’Unione europea: ma sia Washington che Bruxelles tentennano per le conseguenze sul settore bancario
“Non dovremmo dare per scontato lo status globale del dollaro come valuta di pagamento dominante”. L’avvertimento lanciato giovedì scorso alla Camera dalla vicepresidente della Federal Reserve, Lael Brainard, non è rimbombato solo nei confini statunitensi ma ha fatto eco in mezzo mondo. Più che una considerazione, si tratta di una profonda riflessione. “Se le principali giurisdizioni straniere si spostano verso l’emissione delle proprie valute digitali”, ha continuato, “è importante pensare se gli Stati Uniti possano continuare ad avere lo stesso tipo di dominio anche senza emetterne”. La questione è complessa, ma allo stesso molto chiara: il mondo si sta spostando sempre di più verso gli asset digitali e Washington, così come Bruxelles, devono dare risposte concrete in merito.
L’amministrazione di Joe Biden aveva provato a fornirle, circa tre mesi fa. La firma del presidente americano sull’Executive Order on Ensuring the Responsible Development of Digital Assets aveva dato inizio a un percorso che dovrebbe – il condizionale è d’obbligo – portare un giorno all’adozione del dollaro digitale (Central bank digitale currency, CBDC). Su cui proprio la Fed si era espressa a favore. Nel rapporto tanto atteso pubblicato a gennaio, che ha analizzato i pro e i contro di una moneta digitale a stelle e strisce, non c’era una precisa indicazione su come il governo americano avrebbe dovuto muoversi, ma veniva messa in risalto l’esigenza di adattarsi al più presto al cambiamento in atto. Milioni di persone già utilizzano questo metodo di pagamento, visto che al momento ci sono 23 CBDC lanciate o in fase di sviluppo.
Anche perché, una delle principali promotrici è la Cina e, come ormai di consueto, ad un’azione di Pechino corrisponde una controazione di Washington, e viceversa. A novembre scorso, secondo quanto riportato dalla Banca centrale cinese, erano in 140 milioni ad utilizzare un portafoglio digitale. Le ultime Olimpiadi invernali hanno rappresentato una vetrina importante per sponsorizzare il lancio dello yuan digitale. Non a caso, l’indicazione di Pechino alle aziende e agli atleti è stata proprio quella di utilizzarlo quanto più possibile. Anche altri Paesi hanno adottato misure simili, come El Salvador, il primo al mondo ad adottare bitcoin come valuta nazionale. È stato un evento molto significativo, perché sul mercato gli scambi digitali non sono certo una novità, ma hanno una natura quasi interamente privata. Mettere sul mercato una valuta digitale di proprietà dello Stato, invece, cambia radicalmente il senso. O perlomeno lo amplia e costringe altri Paesi a interrogarsi.
La discussione, quindi, si è intensificata anche negli Stati Uniti. L’approccio è quello solito della self-regulation: è il mercato ad autodefinirsi e lo Stato interverrà solo in presenza di un tentativo monopolistico. Ma qualcosa il Congresso dovrà pur partorire per definire perlomeno i paletti con cui delimitare questo percorso fondamentale, che sembra sempre più inevitabile. Già lo scorso anno, quando ancora non ricopriva la carica attuale, Lael Brainard parlava della necessità urgente nell’affrontare la questione: “Non riesco ad immaginare di non avere una valuta digitale statunitense”, aveva dichiarato.
Ognuno ha fatto le sue valutazioni e, dopo la pubblicazione del report di gennaio scorso, doveva seguire un periodo di consultazione di 120 giorni. Ora che è terminato, urge pertanto una presa di posizione. Tra l’altro, in questi quattro mesi, l’implosione degli stablecoin – monete digitali che mirano ad ancorarsi a valute fiat, quindi quelle tradizionali come il dollaro o l’euro, per evitare le oscillazioni tipiche delle criptovalute – ha spinto ancor di più a pensare a una regolamentazione che potesse far coesistere il dollaro cartaceo a quello digitale. L’utilizzo sarebbe lo stesso, anzi: come aveva sottolineato la vicepresidente Brainard, se questo metodo di pagamento fosse già stato attivato durante la pandemia, molte persone bisognose degli aiuti statali avrebbero potuto riceverli anche senza possedere un conto bancario.
Le stesse riflessioni attorniano l’Europa. Lo scorso ottobre, la Banca centrale europea (Bce) aveva dato avvio il suo progetto sull’euro digitale. A spiegare alla Commissione i vantaggi di questa moneta digitale, ci aveva provato il membro del Comitato esecutivo della Bce, Fabio Panetta. “Essa garantirebbe la riservatezza dei dati sugli utenti”, aveva dichiarato lo scorso novembre. “L’euro digitale”, che verrebbe utilizzato per le quotidiane transazioni, “innalzerebbe il livello di riservatezza, offrendo ai cittadini una forma di moneta digitale pienamente rispettosa della privacy”. Questo aspetto è molto importante, sia per rassicurare i consumatori sia le autorità di regolamentazione. Il terreno su cui ci si sta muovendo è “inesplorato”, ma “le banche centrali devono mostrare capacità di innovazione per tenere il passo con il mutare delle abitudini di pagamento e gli sviluppi globali”.
Sulla sicurezza di una moneta digitale statale ha puntato anche Lael Brainard, in quanto verrebbe emessa dalla Fed garantendo così ai consumatori di continuare ad operare in un mercato fortemente turbolento. Quello che può fare la Federal Reserve, o la Banca centrale europea, è solo mettere la politica di fronte alla realtà dei fatti.
La direzione intrapresa è ormai lampante e serve un’accelerazione convinta, senza strappi, affinché anche Stati Uniti ed Europa pianifichino un futuro senza contanti, che stanno già diminuendo drasticamente. A spaventare è la reazione delle banche di fronte a un cambiamento epocale, che avrebbe sicure ripercussioni su un settore che andrebbe completamente rivoluzionato. I rischi ci sono e gli effetti si possono far sentire specie nei momenti di crisi. Senza limiti di utilizzo, inoltre, i depositi potrebbero essere più cospicui con conseguenze negative sulla redditività per via delle difficoltà di raccolta da parte delle banche. Per questo serve un’azione politica, che è quello che Brainard ha chiesto al Congresso: il tempo delle riflessioni è scaduto, adesso occorre agire (bene) per non rimanere indietro.