I lunghi mesi della pandemia, intrisi di lockdown e restrizioni, hanno pompato come non mai i titoli tecnologici spingendo il listino di riferimento per oltre un anno. Ma ora che la pandemia è domata e che la Fed ha posto fine a dodici anni di politica monetaria espansiva, la festa è finita. E il mercato torna coi piedi per terra
A qualcuno potrebbe sembrare il classico sboom, dopo anni di bisboccia e bagordi sui listini. Ma forse è più un ritorno alla normalità, la fine della festa, quando si stacca la musica e i dischi smettono di girare. A Wall Street sta succedendo qualcosa, sta finendo il party iniziato oltre 12 anni fa, all’indomani di quel crack di Lehman Brothers che nella storia americana è un po’ come l’11 settembre della finanza. Era il 2009 quando l’allora governatore della Federal Reserve, Ben Bernanke, su input di Barack Obama, aprì la lunga stagione della politica monetaria espansiva targata Fed, coronata, l’anno dopo, dall’acquisto da parte della stessa banca centrale di 600 miliardi di dollari di Treasury.
Tredici anni dopo, la musica è cambiata e la sbornia finita. Jerome Powell, cui va dato merito di aver annunciato il cambio di rotta con netto anticipo, ha cominciato ad alzare il costo del denaro a un ritmo oscillante tra lo 0,25 e lo 0,50 a trimestre mentre l’inflazione a stelle e strisce ha ripreso a galoppare. Portandosi all’8,5%, ovvero ai massimi dall’amministrazione Reagan, sull’onda di un ritorno alla normalità dopo due anni e mezzo di pandemia, di una crescita sopra le stime, di un’occupazione tonica e dei miliardi iniettati nel mercato grazie ai piani pandemici del presidente Joe Biden.
Ma sono soprattutto le grandi aziende tecnologiche a scendere dalla giostra. I lunghi mesi del lockdown e delle restrizioni, dentro e fuori gli Stati Uniti hanno riscritto d’altronde mezzo secolo di economie domestiche e vita quotidiana, portando a una domanda di tecnologia mai vista prima, sulla spinta della corsa globale al lavoro da remoto. E, di conseguenza, pompando i titoli delle big tech. Non è un caso che nel solo 2021, quando la pandemia picchiava ancora forte, il Nasdaq 100, feudo azionario delle tecnologia mondiale, abbia guadagnato il 27,5% in un anno.
I lockdown però sono finiti, forse non torneranno più, non negli Usa almeno. La tecnologia è certamente ormai parte strutturale della vita quotidiana, ma non c’è più quell’ossessione un po’ frenetica figlia dell’emergenza pandemica. La stretta monetaria, il ritorno di bond a tassi più che positivi, la fine della pandemia e, da ultima, la guerra in Ucraina, hanno portato un generale ripiegamento dei listini americani, a cominciare dal Nasdaq. Ieri a Wall Street è andato in scena l’ennesimo bagno di sangue, con il Dow Jones Industrial Average crollato dell’1,99% (-653 punti), lo S&P 500 del 3,2%, e il Nasdaq Composite del 4,29%. Nei minimi intraday, l’indice S&P 500 è scivolato al di sotto della soglia psicologica di 4.000 punti, fino a 3.975,48, al minimo dal marzo del 2021 e a un livello inferiore del 17% rispetto al record delle ultime 52 settimane.
A mandare in tilt la principale piazza finanziaria del mondo, che oggi segna un recupero, è stata la tecnologia. Il Nasdaq in soli sei mesi ha lasciato sul terreno il 27%, azzerando praticamente l’intero guadagno realizzato nel 2021. E con esso calano i pesi massimi del listino nato negli anni ’70, ovvero Apple, Amazon, Tesla, Microsoft, Alphabet. Allo scoglio dell’inflazione si è unito recentemente anche quello di una recessione: secondo alcuni analisti dovrebbe essere provocata proprio dalla lotta di Jerome Powell contro l’impennata dei prezzi. Il timore, diffuso tra gli analisti, è che Powell non riesca a garantire un atterraggio morbido all’economia Usa.
Il risultato è anche che le big tech Usa hanno perso una capitalizzazione di mercato superiore a mille miliardi di dollari in appena tre giornate di trading, dopo l’annuncio della Federal Reserve, che mercoledì scorso ha alzato i tassi Usa di mezzo punto percentuale al nuovo range 0,75%-1%, con quella che si è confermata la stretta monetaria più forte degli ultimi 20 anni, dal 2000 per la precisione.
Apple, la società che vale di più al mondo, ha perso 220 miliardi di dollari dalla chiusura delle contrattazioni di mercoledì scorso, il giorno in cui Powell ha dichiarato che l’inflazione era troppo alta. Numeri alla mano, guardando agli altri giganti tecnologici, Microsoft ha perso nelle ultime tre sessioni 189 miliardi, Tesla 199 miliardi, Amazon 173 miliardi, Alphabet 123 miliardi e Nvidia 85 miliardi.
E adesso? Forse ha ragione Janet Yellen, segretario al Tesoro americano. “L’invasione dell’Ucraina ha aumentato ulteriormente l’incertezza economica e il potenziale per una continua volatilità e irregolarità per la crescita globale”. Ma vale anche per il Nasdaq?