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La spinta diplomatica di bin Salman arriva in Turchia

Cooperazione e leadership. Bin Salman nel suo tour, e soprattutto con la tappa turca, vuole sottolineare che Riad è la guida del mondo musulmano, ruolo che il saudita vuole rivendicare con Washington

“Gli strumenti economici, la cooperazione nel settore della sicurezza e, soprattutto, la diplomazia pubblica potrebbero essere fattori chiave per consolidare le relazioni turco-saudite, e spero che gli accordi programmati aprano la strada a una relazione istituzionale di lungo periodo”, così Simen Cengiz, della Middle East Technical University di Ankara, commenta con Formiche.net la tappa turca del viaggio dell’erede al trono saudita — oggi, mercoledì 22 giugno, dopo Giordania ed Egitto.

Cengiz spiega che turchi e sauditi stanno affrontando importanti crisi regionali, oltre ai problemi interni dovuti sia alla situazione post-Covid sia alla guerra russo-ucraina. “Le crisi tridimensionali – aggiunge – hanno reso insignificanti le altre questioni problematiche tra i due Paesi. Siamo in un periodo in cui le considerazioni interne hanno più peso di quelle di politica estera”.

Recep Tayyp Erdogan ha il problema di mantenere in piedi il suo ventennale potere mentre la Turchia affronta una stagione delicata, dove la crisi economica pesa sul quadro sociale. E il prossimo anno ci saranno le elezioni. Mohammed bin Salman è ancora principe ereditario, ma svolge una funzione di factotum nel regno: nascono dai suoi pensieri molti dei grandi programmi che spingeranno lo sviluppo dell’Arabia Saudita. E ha bisogno di consenso interno soprattutto tra l’establishment.

Che i destini si incrocino è normale: Riad e Ankara sono due potenze che da lungo tempo cercano di dominare il mondo musulmano. La stabilità inter-regionale è uno dei fattori che in questo momento, davanti a sfide multidimensionali come quella alimentare e climatica, o quella securitaria anche connessa all’Iran, potrebbe aumentare la fiducia sulle leadership all’interno dei singoli Paesi.

“Potrebbe non essere facile per la Turchia e l’Arabia Saudita aprire un nuovo capitolo in tempi brevi”, aggiunge Cengiz, “ma penso che Ankara e Riad si concentreranno sul mantenimento degli interessi reciproci e non creeranno un terreno controverso, almeno se la crisi energetica, alimentare e regionale persisterà. Entrambi i Paesi hanno due economie complementari, poiché uno è specializzato nel settore energetico e l’altro nell’industria della difesa e nella produzione alimentare. Quindi, il riavvicinamento è ora politicamente ed economicamente logico”.

La visita di oggi, mercoledì 22 giugno, potrebbe portare a Erdogan alcuni vantaggi a breve termine, con l’economia turca che ha bisogno di investimenti esterni, dato che l’inflazione al consumo in crescita vertiginosa (fino al 73,5% quest’anno) e una politica monetaria poco ortodossa spaventano i sostenitori più tradizionali. Davanti alla complessità della situazione interna turca, Erdogan potrebbe essere portato ad accettare (anche simbolicamente e con la giusta dose di pragmatismo) la leadership di bin Salman sull’intero mondo arabo islamico.

Per il saudita, questo impegno regionale serve proprio a rilanciare il proprio ruolo sul palcoscenico internazionale. Il principe ereditario vuole seppellire gli affari più delicati in cui è coinvolto (dalla guerra in Yemen all’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi, su cui c’erano state forti tensioni con la Turchia, risolte alla vigilia del viaggio di Erdogan in Arabia Saudita, a fine aprile). E vuole cercare di tornare un interlocutore centrale nella regione. Questo obiettivo riguarda non solo una leadership locale, ma anche il riconoscimento della stessa da parte degli Stati Uniti, attraverso un rinnovato attivismo positivo – come quello con cui fornire assistenza all’Egitto in difficoltà per la crisi economica (e alimentare).

Come spiega James Dorsey, del Middle East Institute, “non è [solo] una questione di energia o di accordi commerciali, che possono o meno uscire dalla visita in Turchia”, ma Mohammed bin Salman potrebbe voler “rafforzare la sua posizione con Biden”. Ossia, aggiunge, “vuole dimostrare di essere in grado non solo di prevenire, ma anche di ricostruire. Vuole dimostrare che l’Arabia Saudita è il leader del mondo musulmano e che Biden dovrebbe prendere sul serio questo Paese, indipendentemente dal fatto che il suo leader gli piaccia o meno”.

Allo stesso tempo, questo genere di azioni serve al saudita anche per placare le opposizioni interne, come già fatto con la riconciliazione di al Ula. Un successo internazionale avrebbe riflessi interni. L’ingresso nel cuore del potere da parte di bin Salman non è stato smooth: il principe ha forzato gli ingranaggi per farsi nominare erede, ha adottato iniziative divisive e aggressive contro chi gli si opponeva. Contemporaneamente fa però parte della classe demografica più giovane, che è motore del Paese (e della regione), e sta proponendo un nuovo patto sociale al regno. Iniziative apprezzate dai cittadini.

“Credo che la regione stia attraversando un’epoca post Primavera araba in cui ogni singolo attore della regione si è reso conto che le politiche molto aggressive e militariste seguite dopo le rivolte hanno minato i rispettivi interessi e la loro sicurezza”, ha spiegato Gonul Tol, direttrice del programma Turchia presso il Middle East Institute in un intervento su Foreign Policy.

Una condizione che ha portato quasi tutti gli attori regionali a un approccio diverso, che pone maggiore enfasi sull’impegno diplomatico e sulla costruzione di legami economici e commerciali.



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