È il momento di una Nato Araba? Probabilmente non ancora, perché i vari attori mediorientali hanno tempi e percezioni diverse di sicurezza e interessi, ma intanto si sta creando una cooperazione tecnica che in futuro potrebbe diventare anche qualcosa di più…
“I conflitti, la fragilità e l’instabilità in Africa e in Medio Oriente hanno un impatto diretto sulla nostra sicurezza e su quella dei nostri partner”, scrive il Nato Strategic Concept, documento che esce dal summit di Madrid e rinnova il precedente del 2010. “Il vicinato meridionale della Nato, in particolare le regioni del Medio Oriente, del Nord Africa e del Sahel, deve affrontare sfide interconnesse di sicurezza, demografiche, economiche e politiche. Queste sono aggravate dall’impatto del cambiamento climatico, dalla fragilità delle istituzioni, dalle emergenze sanitarie e dall’insicurezza alimentare. Questa situazione costituisce un terreno fertile per la proliferazione di gruppi armati non statali, comprese le organizzazioni terroristiche. Inoltre, consente interferenze destabilizzanti e coercitive da parte di concorrenti strategici”.
Il quadro fornito dall’alleanza è chiaro su rischi e minacce di quella che – complice la guerra russa in Ucraina – sta tornando a essere una regione centrale, che per altro sta cercando azioni di distensione e processi di cooperazione. Stante questo contesto, da Amman nei giorni successivi alla visita del principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, è uscita una proposta riguardo a un’altra forma di integrazione regionale: quella militare. Re Abdullah II, in un’intervista alla CNBC, ha detto che sarebbe favorevole alla formazione di una versione mediorientale della NATO. Con un’avvertenza: “La dichiarazione della missione deve essere molto, molto chiara. Altrimenti confonde tutti”. Di “Nato araba” si parla da diversi anni.
Era il dicembre del 2015, quando nella sua prima apparizione pubblica l’allora ministro della Difesa saudita, e non ancora principe ereditario bin Salman, sfruttò la sua prima apparizione pubblica per lanciare l’idea. Bin Salman cercava spazi (poi trovati attraverso un’operazione interna) nel regno e nel palcoscenico internazionale/regionale. Aveva messo il suo paese alla guida di un gruppo di 34 nazioni – tutte sunnite – che si sarebbe intestata la lotta al terrorismo nell’area, con una doppia declinazione diretta: la sconfitta dello Stato islamico e l’obliterazione degli Houthi in Yemen.
A distanza di sette anni, l’Is è stato sconfitto attraverso le operazioni della Coalizione internazionale a guida americana (a cui partecipano con relativa attività i Paesi mediorientali) e gli Houthi sono ancora in Yemen (un processo di dialogo è stato avviato anche sulla base del fatto che la guerra civile, che la coalizione saudita avrebbe dovuto risolvere nel giro di poco tempo, è in stallo e la crisi umanitaria sempre più profonda).
Di Nato araba si è tornato a parlare nel 2017, quando bin Salman aveva consolidato la presa sul futuro di Riad e l’allora presidente Donald Trump rilanciava la sua idea. Si parlava di un’Alleanza Strategica per il Medio Oriente (MESA). La Casa Bianca, che ai tempi aveva un rapporto interpersonale con il saudita a differenza delle relazioni più fredde dell’amministrazione Biden, pensava a quel progetto anche – o soprattutto – nell’ottica dell’America First. Una coalizione militare regionale avrebbe permesso agli Stati Uniti di disimpegnarsi dall’area, una volontà che già in parte Barack Obama aveva ventilato e che con Trump era stata esposta all’evidenza del mainstream.
I progetti sono rimasti fermi, anche perché come scrive Bobby Ghosh in un’analisi uscita per Bloomberg Opinion “i Paesi che comporrebbero tale alleanza hanno faticato a definire obiettivi di sicurezza comuni, per non parlare dei nemici comuni”. Uno di questi potrebbe essere l’Iran, che ha in piedi attività espansionistiche basata su un’idea imperiale persiana, portate avanti anche attraverso le attività di milizie proxy diffuse in tutta la regione. Per Ghosh tuttavia, ci sono percezioni diverse della minaccia iraniana e strategie diverse su come affrontare Teheran. Tutto ciò offusca le speranze della missione “molto, molto chiara” che Re Abdullah ha in mente.
È anche vero che ci sono stati due cambiamenti negli ultimi anni: in primo luogo, Israele ha normalizzato le relazioni con alcuni Stati arabi e si sta muovendo verso accordi simili con altri, il che significa che le Forze di Difesa Israeliane faranno probabilmente parte di qualsiasi nuova alleanza. In secondo luogo, il pericolo rappresentato dall’Iran è più chiaro e potente che mai. Tuttavia, Paesi come il Qatar e l’Oman hanno buone relazioni con la Repubblica islamica; il Kuwait mantiene legami cauti; l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono diffidenti nei confronti dell’Iran, ma dopo anni di politiche di scontro (sfociate nel conflitto per procura in Yemen), sono ora più propensi all’accomodamento che allo scontro e hanno condotto negoziati piuttosto aperti con il regime di Teheran.
Da settimane si parla con assiduità di un’architettura di sicurezza in costruzione in Medio Oriente (e Nord Africa). Sebbene possa essere parte dello spin comunicativo che precede l’arrivo di Joe Biden in Arabia Saudita e Israele, questo progetto è un pensiero di Washington da tempo. Gerusalemme e le capitali del Golfo condividono, anche perché la sicurezza è l’elemento critico. Un’immagine: a marzo un attacco lanciato dai ribelli Houthi con missili probabilmente forniti dai Pasdaran, ha colpito un impianto della Saudi Aramco a Jeddah (città in cui si recherà tra due settimane Biden tra l’altro). Il bombardamento è avvenuto mentre sul circuito della città saudita erano in corso le prove libere del Gran Premio di F1. Una vicenda che segna la cifra della sfida securitaria mentre quei Paesi sono lanciati verso il tetto del mondo e cercano di raccontarsi come qualcosa che va oltre ai loro reservoir energetici.
Anche il ministro della Difesa israeliano ha parlato pubblicamente di questa forma di difesa comune, definendola “Middle East Air Defense Alliance” (MEAD). Recentemente, la notizia più interessante su questo tema riguarda la riunione segreta organizzata dagli Stati Uniti, a marzo, con gli alti ufficiali militari di Israele e di alcuni Paesi arabi per discutere di come contrastare la crescente minaccia iraniana nella regione. Secondo l’informazione, diffusa dal Wall Street Journal, oltre che americani e israeliani erano presenti funzionari militari di Arabia Saudita, Qatar, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Bahrein. Durante la riunione, a Sharm El Sheikh, in Egitto, si sarebbero esaminato come i Paesi possano difendersi dalle crescenti capacità missilistiche e dei droni dell’Iran. È stata la prima volta che alti funzionari israeliani e arabi si sono incontrati per discutere di cooperazione militare contro una minaccia comune.
È un passaggio importante nell’ambito della costruzione di un sistema di sicurezza comune, che – come è il caso della Nato – potrebbe portare a ulteriore forme di cooperazione e integrazione. Gli Stati dell’area MENA iniziano a percepire il parziale disimpegno statunitense dalla regione. Washington è stato per anni il principale fornitore di sicurezza, e in questo non è sostituibile da altre potenze come la Cina o la Russia (e tanto meno l’India). Consapevoli di questo, cercano di sfruttare gli Usa come catalizzatore. C’è un approccio diverso, questi Paesi hanno compreso che possono affrontare i problemi comuni insieme, che possono raggiungere stabilità e migliorare le loro condizioni di vita, e in questo la pandemia – e la crisi ucraina – hanno promosso uno scatto in avanti.
Questa condivisione di interessi, in particolare tra due grandi attori come Israele e Arabia Saudita, definita “normalizzazione del concetto di normalizzazione” da Kristina Ulrichsen Baker Institute alla Rice University di Houtson, è uno dei motori principali del processo di sincronizzazione in corso. Un fattore che potrebbe implementare in futuro quella che adesso è una “cooperazione tecnica” (definizione rubata a Cinzia Bianco, Ecfr) e trasformarla in una vera alleanza?