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AfriCom ha un nuovo comandante (che pensa a Russia e Cina)

Il nuovo capo di AfriCom, il generale dei Marines Langley, avrà in mano una serie di dossier dove gli Stati Uniti intendono giocare le carte della politica militare in un continente che sta diventando sempre più strategico

Dopo il cambio alla guida di CentCom, il comando del Pentagono che copre il Medio Oriente (dall’Egitto all’Afghanistan), ora la turnazione della leadership tocca AfriCom. Il presidente Joe Biden ha accettato il consiglio del segretario alla Difesa, Lloyd Austin, e scelto il generale dei Marines Michael Langley, passato dall’audizione al Senato giovedì 21 luglio.

Langley è “il Marine dei Marine”, come lo ha definito Jim Mattis (generale con aurea mitologica, la cui lunghissima carriera lo ha portato a essere capo del Pentagono con l’amministrazione Trump). Andrà a ricoprire un ruolo chiave in un quadrante pieno di complessità che sta acquisendo centralità strategica crescente.

L’Africa è il continente del futuro, e se la guerra in Ucraina porta a un aumento di frizione sul lato orientale dell’Europa — bloccando la proiezione geopolitica della stessa verso est —allora la sponda meridionale acquisisce ulteriore dimensione e valore. Tanto più per i riflessi del conflitto.

Interessi non solo per l’Europa, ma anche per gli Stati Uniti — che hanno annunciato un maxi vertice per dicembre, quando Biden ospiterà i leader africani a Washington. E per la componente asiatica del blocco occidentale — come per esempio dimostra la costruzione di un nuovo accordo commercialetra Egitto e Corea del Sud e l’interesse del Giappone per ciò che accade in regioni come il Corno d’Africa e il Mediterraneo allargato.

Ma allo stesso modo è una vasta area di interesse per nazioni rivali dell’Occidente, come Cina, Russia o Iran. E con un ruolo d’eccezione giocato dalla Turchia, parte dei meccanismi Usa/Ue (come la Nato), ma interessata a muovere un Ankara Consensus — autonomo e in parte competitivo — in certi Paesi.

Il ruolo dei comandi strategici come quello che  Langley andrà a guidare è determinante. Dal generale passerà l’applicazione della linea politica-militare, con il valore di costituirsi come interlocutore diretto in grado di ascoltare certe istanze. Per esempio quelle collegate alla sicurezza, fattore fondamentale per la stabilità e dunque per garantire ai governi locali la capacità di sviluppo e crescita promesse alle collettività.

“È la cosa migliore che contrasterà la grande competizione di potere che sta arrivando con le false proposte di valore che offrono da Russia , China”, ha detto Langley ai senatori a proposito dell’annunciato rinnovato del coinvolgimento militare americano in Somalia. Messaggio chiaro, molto ben recepito dai legislatori che accettano molto più facilmente gli impegni militari statunitensi se posti sul piano dell’interesse strategico.

E il contrasto, o il contenimento, a Russia e Cina è esattamente quel genere di impegno che Capitol Hill intende. Su questo si basano le richieste di “maggiori risorse, non di meno”, come ha detto il senatore Jim Inhofe, Repubblicano dell’Oklahoma e ranking member della Commissione Servizi armati che ha esaminato Langley.

Gli Stati Uniti lavorano con i Paesi africani per aiutarli a stabilire zone di esclusione marittima, ha continuato citando un altro esempio il Marines: “Sarà il più grande deterrente, o azione di garanzia […] e questo dissuaderà la Cina dal cercare di conquistare la costa occidentale del continente africano”. Poi ha spiegato che secondo la sua visione la base militare cinese a Gibuti è un esempio di come Pechino “probabilmente in futuro voglia avere la capacità di influenzare il libero flusso del commercio” tramite lo stretto di Bab el Mandeb (tra Corno d’Africa e Penisola Araba, nodo talassocratico tra Oriente e Mediterraneo). “Questo è un chokepoint strategico […] di cui dobbiamo essere davvero preoccupati”, dice Langley.

Il comandante di AfriCom ha anche parlato di altri due fattori africani, a tratti sovrapponibili: il terrorismo e la disinformazione. Il primo, molto diffuso nelle zone saheliane, a volte trae vantaggio dalla diffusione di informazioni false o alterate. Queste spesso sono anche fatte circolare dai rivali occidentali in Africa, come per esempio ha fatto la Russia in Mali.

Là la giunta golpista che guida il Paese ha scelto di affidare la propria sicurezza e quella del Paese (contro il peso crescente delle entità jihadiste che tagliano il territorio) ai contractor russi della Wagner, rinunciando all’aumento di supporto della missione Onu (MINUSMA) e di quella europea (Task Force Takuba). La scarsa efficacia di queste ha prodotto i presupposti per aprire la porta a quell’alternativa che da tempo corteggiava le élite maliane e la popolazione, anche attraverso campagne di infowar. “Hanno diffuso l’aggressività russa. Sono mal disciplinati […] Come i russi, sono minacce acute”, dice Langley, “viziose e brutali” — come dimostrato in alcune operazioni anti-terrorismo condotte per i maliani (per esempio il massacro di Moura).

E forse non è un caso se il ritorno alle attività operative della “War on Terror” statunitense in Somalia sia coincisa con il cambio di presidente a Mogadiscio. Le attività del gruppo combattente Shabab sono cresciute di qualità, lo ha ammesso anche il comandante statunitense, hanno iniziato a puntare contro la legittimazione istituzionale, cercando di dimostrare l’incapacità di governo e forze armate di proteggere la propria cittadinanza.

È davanti a questo che l’enpowerment militare da Washington si rende necessario, anche perché gli spazi potrebbero essere riempiti da attori concorrenti (come in Mali appunto).

Una nota invece tutta americana sulla nomina. I Marines hanno una storia complicata con le persone di colore. Il servizio fu l’ultimo braccio militare togliere la discriminazione razziale, nel 1942. Da allora, meno di 30 individui hanno raggiunto il grado di generale in qualsiasi forma, senza che nessuno sia arrivato al rango a quattro stelle — Langley dovrebbe essere il primo in 246 anni di storia.

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