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Ita, Mps e rete unica. Le patate bollenti del dopo Draghi

La caduta del governo non potrà non impattare sulle principali partite industriali in corso. A cominciare dalla privatizzazione della ex Alitalia, fino ad arrivare alla costituzione della società per la banda larga. Ma c’è anche il futuro di Mps, tutto da scrivere

Nessuna crisi di governo è indolore. Se poi a cadere è l’esecutivo guidato dall’uomo spedito a Palazzo Chigi per salvare la patria da pandemia e inflazione, allora il tonfo è di quelli grossi. Sul fronte industriale ci sono non meno di due partite che se non sono state ancora congelate rischiano certamente un brusco stop. Da una parte la cessione di Ita, la compagnia erede della disastrata Alitalia, posseduta al 100% dal Tesoro dopo lo spin-off dello scorso anno. E dall’altra l’uscita dello stesso azionista Mef (64%) dal Monte dei Paschi di Siena, dopo la proroga di 18 mesi concessa dall’Europa, sempre nel 2021.

Partendo dal primo fronte, sul tavolo del ministro dell’Economia, Daniele Franco, ci sono due offerte. Quella della cordata Msc-Lufthansa, 800 milioni-1 miliardo per rilevare la compagnia e i suoi asset e quella del consorzio franco-americano Certares Air France-Klm-Delta. Ma il governo ha scelto, o meglio aveva. Nei giorni in cui il governo di Mario Draghi cominciava a perdere i primi pezzi e l’odore della crisi si faceva via via più forte, a Via XX Settembre veniva informalmente scelta la prima opzione, la cordata svizzero-tedesca. Ora però il contesto è cambiato e di questo non si può non tenerne conto.

Bisogna fare un po’ di chiarezza, ricordando che il governo è attualmente in carica solo ed esclusivamente per il disbrigo degli affari correnti. Ora, una circolare diffusa a latere dell’ultimo Consiglio dei ministri chiarisce un punto e cioè che dovrà essere “assicurata la continuità dell’azione amministrativa” da parte del governo e dei ministeri. Di qui la convinzione che il dossier Ita rientri nell’azione amministrativa e che dunque Draghi firmi le carte per dare il via libera alla trattativa in via esclusiva con Msc e Lufthansa, visto che l’azionista Tesoro ha già dato il suo parere favorevole.

Attenzione però, perché le decisioni industriali sono anche politiche. E non è assolutamente detto che il destino di Ita rientri negli affari correnti. Questo secondo scenario è quello più complicato, perché tira direttamente la compagnia nella campagna elettorale da qui al 25 settembre, congelando di fatto l’operazione con Msc. E dunque, se il nuovo esecutivo che si insedierà dopo le elezioni vorrà confermare il parere del ministro Franco, la cordata Msc-Lufthansa avrà la strada spianata. Diverso il discorso se si decidesse di cambiare le carte in tavola. C’è un paletto fondamentale, che è il 31 dicembre prossimo. Entro quella data Ita dovrà essere privatizzata perché altrimenti il prestito da 1,35 miliardi concesso dal governo si configurerà come aiuto di Stato, mettendo l’Italia in una posizione scomoda con l’Europa.

Altro dossier, decisamente diverso è Mps. Qui l’operazione che porta al disimpegno del Tesoro, azionista di controllo di Siena, dovrebbe essere meno rischiosa. Perché la politica e dunque i partiti, se entreranno a gamba tesa sul Monte, lo faranno quando sarà il momento di rimettersi a cercare uno sposo per la banca senese, dopo le fallite nozze con Unicredit. Prima, infatti, c’è da mettere in pista un aumento di capitale da 2,5 miliardi, alimentato in buona parte dallo stesso Stato mentre il resto, circa 900 milioni, arriverà dal mercato, sbloccare non meno di 4mila uscite e portare a casa la chiusura di 150 filiali.

E poi lo smaltimento progressivo dei crediti deteriorati e per l’affidamento delle filiali del Meridione a un soggetto terzo, verosimilmente Mcc. Sull’aumento, dalle indiscrezioni raccolte, non c’è particolare apprensione, visto che il grosso della quota è in capo al Tesoro, mentre il mercato si sa ragiona slegato ai desiderata del Palazzo. Qualche problemino, semmai, potrebbe arrivare sulla questione esuberi, tema sempre caldo in termini di campagna elettorale. Si vedrà.

Non è finita. Terzo e non meno importante fronte, la rete unica, con la cessione degli asset di rete di Telecom a Open Fiber, alias lo Stato. Qui il gioco potrebbe complicarsi, anche se è prematura fare delle previsione. Telecom da parte sua vuole cedere la rete secondaria oggi incastonata in Fibercop, ma a un prezzo ragionevole e non a tutti i costi. Pronta, semmai ce ne fosse bisogno, a trattare direttamente con i privati. E Open Fiber, controllata direttamente da Cassa Depositi e Prestiti, quella rete la vuole. La volontà industriale, insomma, c’è. Ma dopo la caduta del governo Draghi sulla telco aleggiano da più parti i timori per la realizzazione della rete unica, su cui avrà voce in capitolo l’esecutivo che uscirà dalle urne il prossimo 25 settembre.

E sembra che Vivendi, azionista di riferimento in Tim, abbia alzato le sue richieste sulla rete, collocando il prezzo dell’infrastruttura dell’ex monopolista in un range compreso tra 31 e 34 miliardi di euro, superiore alla stima di 31 miliardi che era in precedenza trapelata da Parigi.

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