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Una mossa Ue minaccia l’industria del litio e il Green Deal

La proposta di definire il materiale come pericoloso preoccupa il settore, con la possibile perdita in competitività delle aziende a valle della filiera in Europa. In un contesto di instabilità sui mercati, il rischio è vedere un nascente comparto, cruciale per la transizione, soffocato nella culla

L’industria europea del litio ha alzato le barricate contro una proposta, avanzata dall’European Chemicals Agency (ECHA) di classificare il litio come tossico. E non senza ragioni: la classificazione sarebbe controproducente rispetto agli obiettivi fissati dalla stessa Commissione europea, rendendo il contesto europeo meno attraente per gli investimenti in nuove capacità produttive, dalle attività estrattive fino alla produzione di anodi e catodi, e passando dal cruciale step di raffinazione dell’oro bianco.

Secondo l’ECHA, che ha accolto una proposta dell’Agence nationale dé sécurité sanitaire de l’alimentation, de l’environnement et du travail (ANSES) avanzata a dicembre 2019, l’armonizzazione prevederebbe che il carbonato, la cloride e l’idrossido di litio vengano inseriti nel regolamento europeo CLP (Classification, Labelling and Packaging) come composti pericolosi per la salute umana, sulla base di studi che ne avrebbero comprovato il rischio per la fertilità. Questa proposta è rimasta sul sito dell’agenzia europea per una consultazione pubblica sin dal 3 agosto 2020, dando quindi la possibilità a tutti gli stakeholder di esprimere pareri e avanzare proposte, in attesa che l’opinione definitiva del Committee for Risk Assessment dell’ECHA venisse inviato alla Commissione europea.

Il Comitato sta infatti spingendo affinché i tre materiali vengano inserite nella Categoria 1A, ovvero quella che raggruppa i composti chimici con il più alto rischio d’impatto. Una decisione definitiva è attesa tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023.

Attualmente il litio in Europa viene utilizzato principalmente nell’industria farmaceutica (3%), nei lubrificanti commerciali (7%) e in diverse altre applicazioni (circa il 15%) anche se, come è ormai noto, vedrà esplodere la sua domanda soprattutto per le batterie dei veicoli elettrici (EV), arrivando quasi al 90% dell’utilizzo entro il 2030. Secondo uno studio di Eurometaux, discusso su queste colonne, i piani dell’Europa di aumentare la produzione delle tecnologie per l’energia pulita richiederà un aumento vertiginoso della sua dieta industriale di metalli. Principalmente, litio, cobalto e terre rare, con la domanda europea dei due battery metal che aumenterà rispettivamente del 3500% e del 330% entro il 2050. Il litio è stato inoltre classificato come ‘materiale critico’ dalla Commissione soltanto alla fine del 2020, dal momento che l’Europa è dipendente da paesi terzi non avendo una solida base mineraria.

Le possibili implicazioni di questo regolamento sono ben chiare per gli operatori del settore. La classificazione del litio come sostanza tossica potrebbe ritardare la transizione energetica e minacciare la posizione europea, già precaria, nella corsa globale alle batterie e ai veicoli elettrici: è questa la conclusione a cui sono giunti sette gruppi industriali, in una lettera inviata ai decisori e legislatori europei. Si tratta dell’European Battery Recycling Association, l’European Geothermal Energy Council, Eurobat, Eurometaux, Euromines, l’International Lithium Association e Recharge.

“L’Europa è a un momento critico per la sua transizione energetica, necessitando di stimolare nuovi investimenti per una filiera dei BEV (battery electric vehicles) integrata”, si legge. “La sfida più grande è ora assicurarsi i metalli per le batterie che vedranno strozzata l’offerta nei prossimi 15 anni”. Tuttavia, “una classificazione ingiustificata del litio [come materiale tossico, n.d] sarebbe un pessimo segnale che porterebbe incertezza per quelle aziende che guardano ad investimenti a lungo termine nella capacità europee di raffinazione e di riciclo, rischiando ritardo o differenti scelte verso mercati più competitivi”.

In generale, è difficile prevedere con certezza come questa classificazione potrebbe impattare la filiera europea del litio, ma di sicuro appesantirebbe i processi autorizzativi, obbligherebbe le imprese a destinare maggiori risorse sulla gestione del rischio e, nel lungo termine, renderebbe l’Europa un continente meno attrattivo per gli investimenti, soprattutto nelle fasi di raffinazione del materiale, tra le più impattanti e, ai numeri, il vero collo di bottiglia dal momento che la Cina è leader nella processazione del litio (59%), nella produzione di catodi (80%), anodi (89%) e nella fabbricazione delle celle per le batterie (79%) secondo i dati di Benchmark Minerals Intelligence. Rendendo, di fatto, ogni sogno di autonomia strategica nel comparto una velleità.

“L’Europa sta cercando di rincorrere la Cina, che è già avanti un decennio […] Dispone di una finestra di opportunità che si sta restringendo per attrarre gli investimenti necessari, e il litio è un materiale centrale per il nostro successo”, avvisano gli industriali. Sono tre i rischi del regolamento: classificare, senza solide basi scientifiche, il litio come materiale tossico farebbe di molte attività un target per severe restrizioni; consentirebbe alle industrie non sottoposte ai regolamenti europei, tra cui REACH (Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemicals) di godere di un “vantaggio competitivo” per produrre i tre composti del litio, non essendo soggette a severi requisiti ambientali; infine, contribuirebbe a stigmatizzare il litio come materiale dannoso, con gravi ripercussioni sull’accettabilità sociale e politica dei progetti lungo tutta la filiera. Un aspetto sui cui le istituzioni europee stanno già facendo i conti.

“L’evidenza scientifica è troppo debole per potere giustificare una tale classificazione”, ammoniscono gli industriali, che propongono una “rivalutazione” dei rischi d’impatto, altrimenti la proposta “avrebbe un impatto notevole sugli obiettivi industriali europei per i veicoli elettrici, le batterie e i materiali critici”.

In generale, la proposta non inficerebbe le importazioni di litio, ma se approvata aumenterebbe i costi a causa di maggiori regole sulla base del regolamento CLP. In sostanza, vedremmo sfumare nuovamente le possibilità di fare dell’Europa un continente industrialmente attraente, dal momento che il nuovo regolamento imporrebbe costi e oneri legislativi che mal si conciliano con le esigenze degli operatori midstream, già oberati dagli alti costi delle materie prime e dalla difficoltà di approvvigionamento che hanno obbligato a rivedere al ribasso investimenti e capacità produttive nel triennio 2024-2027 per le batterie. Carlos Tavares, amministratore delegato di Stellantis, ha infatti di recente avvertito che in assenza di un drastico taglio dei costi (40% entro il 2030), il mercato dei veicoli elettrici “potrebbe collassare”. Il problema sostanziale per i produttori europei rimane infatti l’accesso ai materiali, mentre i competitor asiatici sembrano meglio posizionati per beneficiare dell’aumento della domanda di batterie. Stellantis sta sviluppando cinque gigafactory tra Europa e Nord America, per una capacità potenziale di 400GWh.

Senza capacità interne competitive nei segmenti più a rischio, l’Europa vedrebbe ulteriormente peggiorare la sua posizione sulle catene di fornitura. “Questa proposta è scientificamente senza fondamento e perpetuerebbe la sua dipendenza rischiosa dalla Cina per la raffinazione del litio” ha commentato, raggiunto da Argus Media Richard Taylor, fondatore della britannica Green Lithium. “L’opportunità per la Gran Bretagna è di agire in piena autonomia in questo settore”, ha aggiunto, di fatto confermando i recenti sforzi del Regno Unito per una maggiore sovranità tecnologica.

La posta in gioco, dunque, è davvero alta. Diversi OEMs europei e aziende attive lungo la filiera hanno infatti lanciato l’allarme. Albemarle Corp, azienda americana e tra i principali produttori globali di litio, ha infatti dichiarato che il passaggio del regolamento potrebbe impattare negativamente i suoi impianti in Germania, a Langelsheim, e in generale avere “un influenza negativa sulla viabilità di nuovi impianti produttivi in Europa”.

Come può, dunque, l’Europa seriamente rispettare il recente phase-out dei motori a combustione entro il 2035, auto-imponendosi, attraverso un framework legale complesso e stringente, un limite per lo sviluppo di quell’industria che dovrebbe rendere il comparto sostenibile? Entro il 2030, sono stimati 30 milioni di EV sul continente, il che richiederà uno sforzo industriale e politico immenso. Purché sia coordinato, pragmatico e condiviso tra tutti gli stakeholder europei.

Intanto, il gruppo Volskwagen ha annunciato il lancio di un impianto di produzione di celle per batterie elettriche nel sito di Salzgitter, alla presenza del Cancelliere tedesco Olaf Scholz. La produzione, affidata dalla controllata PowerCo che sovrintenderà tutte le attività lungo la catena del valore, partirà nel 2025 con investimenti pari a 20 miliardi e 20.000 nuovi posti di lavoro. L’impianto potrà arrivare ad una capacità di 40GWh, abbastanza per lanciare sul mercato 500.000 veicoli elettrici, con un piano per il riciclo sostenibile dei materiali con tassi vicini al 90%.

Ombre e luci per l’industria europea delle batterie.


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