Così come ha limitato la capacità cinese di produrre chip logici, Washington vorrebbe randellare Pechino sui chip di memoria. Sarebbe il primo uso del controllo delle esportazioni senza diretta applicazione militare, un cambio di passo nella guerra commerciale. Che potrebbe andare di traverso agli alleati
I semiconduttori sono un fronte chiave del confronto geopolitico tra Stati Uniti e Cina, che si espande sempre più sul versante economico. Ormai coinvolge direttamente le compagnie produttrici, che sono poche, potenti e codipendenti rispetto ai grandi Paesi che da esse si riforniscono. Ne sono consci i mercati, che osservano preoccupati il viaggio della leader statunitense Nancy Pelosi, speaker della Camera dei deputati statunitense, a Taiwan, e le reazioni furiose della Cina.
L’industria dei microchip paga la sua portata globale in un mondo che va verso il decoupling economico. Nel timore generalizzato di un’escalation del conflitto, i titoli delle principali produttrici di semiconduttori sono crollati nella giornata di martedì. A partire da quelle taiwanesi: la leader globale Tmsc ha perso il 2,4%, la sorella minore Umc il 3%. Stessa sorte anche per i titoli europei, mentre quelli statunitensi hanno subìto una flessione più morbida.
Questa volatilità è un problema evidente per le superpotenze in gara. Come la Cina, anche gli Stati Uniti stanno puntando sul rinforzare la propria industria locale e ridurre la dipendenza dai fornitori esteri (con un pacchetto da 280 miliardi di dollari). Ma contrariamente a Pechino, Washington parte da una posizione di forza: possiede tecnologie e sistemi di produzione più avanzati, spesso usati altrove nel mondo, e le aziende più importanti del settore risiedono in Paesi alleati.
È da questa posizione e grazie agli alleati che gli States sono riusciti a impedire che la Cina mettesse le mani sui macchinari litografici (leggi: fabbrica-chip logici) più avanzati, rallentando di anni il progresso dell’industria cinese – che nondimeno recupera terreno. Ora Washington vuole replicare la tattica con i chip di memoria flash più avanzati e utilizzati, detti Nand, quelli che si trovano anche negli smartphone e nei computer. Secondo le fonti di Reuters, l’amministrazione di Joe Biden starebbe considerando di bloccare le vendite delle relative attrezzature americane alle aziende cinesi.
Questa mossa si applicherebbe ai macchinari per la produzione di chip Nand con più di 128 strati, quelli più adatti alle tecnologie moderne e futuribili. Le statunitensi Lam Research e Applied Materials sono i principali fornitori. Ma c’è di più: “Secondo gli esperti di controllo delle esportazioni,” scrive la testata britannica, “si tratterebbe del primo tentativo degli Stati Uniti di colpire, attraverso il controllo delle esportazioni, la produzione cinese di chip di memoria senza applicazioni militari specializzate, il che rappresenta una visione più ampia della sicurezza nazionale americana”.
Questo protezionismo 2.0 è il vero cambio di passo. Passare dal bandire i semiconduttori più avanzati – che aumentano la potenza di calcolo e dunque migliorano armi, intelligenza artificiale, potenza di fuoco degli attacchi cyber – per motivi strategici, al rallentare l’intera industria cinese e assicurarsi che non monopolizzi la produzione di tecnologie vitali per il progresso, così come avvenuto per i pannelli solari.
Colpire l’industria cinese permetterebbe agli States anche di favorire la propria. Nel 2019 la Cina produceva il 14% dei chip Nand a livello mondiale, oggi è salita al 23%. Nello stesso periodo i produttori americani sono scesi dal 2,3% al 1,6%, secondo Yole Intelligence. Il campione cinese Yangtze Memory Technologies (Ymtc), fondato nel 2016, oggi copre il 5% della domanda mondiale e minaccia le statunitensi Western Digital (13%) e Micron Technology (11%).
L’anello debole della strategia Usa, tuttavia, potrebbero essere gli alleati. Come abbiamo scritto su queste colonne, l’Olanda sta resistendo alle pressioni americane per bandire anche la vendita dei macchinari litografici meno avanzati per non perdere la sua quota nel redditizio mercato cinese. Il piano per i chip di memoria, invece, andrebbe di traverso ai giganti sudcoreani Samsung e SK Hynix; la prima ha due grandi fabbriche in Cina, la seconda sta acquistando le attività cinesi dell’americana Intel. E non è affatto detto che considerino il rischio cinese maggiore della salute delle proprie industrie.