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Energia e transizione, i rischi di nuove dipendenze

L’Europa è a un bivio cruciale, affrontare la crisi energetica attuale con un occhio alle sfide della transizione, soprattutto legate agli approvvigionamenti di materie prime. È in atto un cambio di paradigma per la politica europea?

Mentre l’Europa è in ginocchio per l’aggravarsi della crisi energetica, nella giornata di ieri, si è svolto un importante incontro a Praga che rischia di passare inosservato ma dalle cui conclusioni si può dedurre quale potrebbe essere, auspicabilmente, la posizione dell’Ue sulle sfide del futuro.

Perché se è vero che l’attuale crisi ha messo a nudo le carenze della leadership europea in questi ultimi decenni nell’affrontare la politica energetica, dall’altro lo stimolo non potrà che essere quello di evitare di perseverare negli stessi errori del passato, seppur in contesti geopolitici molto differenti.

Perché svincolare la nostra dipendenza da petrolio e gas, ricorrendo alle rinnovabili, richiederà di guardare comunque verso il suolo prima di poter beneficiare di sole e vento. Entro il 2030, la domanda europea per i materiali di terre rare per le turbine eoliche crescerà di cinque volte, secondo le stime della Commissione, mentre l’offerta globale raddoppierà soltanto. La domanda di litio per le batterie elettriche, cruciali tanto per la mobilità sostenibile quanto per lo stoccaggio di elettricità da fonti rinnovabili, sarà di 60 volte maggiore nel 2050 rispetto al consumo corrente, secondo il Joint Research Centre, e di 15 volte per cobalto e grafite. Mentre le stime per le tecnologie digitali sono ancora incerte.

“La domanda sta crescendo vertiginosamente per via della transizione digitale  e sostenibile della nostra società”, ha scritto in un post il Commissario al mercato interno, Thierry Breton, ma “siamo troppo spesso dipendenti per intero dalle importazioni, mentre la geopolitica delle filiere è sempre più instabile”. Ecco perché stimolare il dibattito è sempre più urgente, oltre alla ricerca concreta di soluzioni, dicasi investimenti, interventi regolatori, innovazione.

La Raw Materials Security of Europe Conference si è tenuta a Praga, nell’ambito delle iniziative promosse dal ministero dell’Industria e del commercio della Repubblica Ceca che ha inaugurato la presidenza ceca del Consiglio europeo. L’obiettivo della conferenza, a cui hanno partecipato policymakers, esponenti dell’industria e istituzioni di ricerca – tra cui il nostro Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) – è stato quello di proporre passi in avanti, in concreto, per l’implementazione della strategia europea in tema di materie prime critiche, un dossier sempre più importante per accelerare la transizione energetica del continente e, di fatto, contribuire a risolvere la crisi attuale.

Non si tratta, tuttavia, solo dell’industria delle rinnovabili. “Prendiamo qualsiasi tecnologia futuristica, dalle batterie ai semiconduttori, ma anche le capacità militari e della difesa, oppure i sistemi di comunicazione, i satelliti o i visori. I materiali critici sono di importanza cruciale”. Sono le parole del vicepresidente Maroš Šefčovič, intervenuto durante la conferenza.

L’importanza economica di questi materiali per l’industria presente e del futuro non è l’unico motivo a spingere per un maggiore interventismo della Commissione. A catalizzare questo nuovo mindset, che Breton ha più volte espresso nei suoi interventi pubblici e che ha in parte già stimolato le proposte a Bruxelles (come l’European Chips Act), è la convinzione che sia la pandemia che l’invasione russa dell’Ucraina abbiano evidenziato come l’Europa non possa più permettersi “di entrare sonnambula in un’altra eccessiva dipendenza in un settore strategico, soprattutto vista la situazione attuale in cui le rivalità geopolitiche sono trasferite su più domini e letteralmente tutto può essere militarizzato”.

Tuttavia, in questo contesto di competizione non solo economica lo sguardo si è fermato troppo frettolosamente sui settori a valle, tralasciando i rischi e i delicati equilibri a monte della filiera. E’ un caso studio quello delle batterie al litio, di cui la Cina è principale produttrice mondiale e su cui l’Europa a partire dalla nascita dell’European Battery Alliance (EBA) nel 2017 ha voluto rincorrere: ad oggi, 110 progetti per gigafactory sono in rampa di lancio nel continente, abbastanza per garantire il 90% della domanda europea entro il 2030. Ma resta il nodo forniture di litio, cobalto e nickel di cui l’Europa è responsabile solo per l’1%. Servono sì due o tre anni a lanciare e ottimizzare una gigafactory o un impianto di produzione di veicoli elettrici, ma ne servono tra i cinque e i dieci per (o anche di più, a seconda delle disposizioni legislative) costruire e rendere operativa una miniera. Così come è più semplice attrarre investitori, stante i differenti rischi socio-ambientali. Senza contare i colli di bottiglia della trasformazione e raffinazione, che già oggi vede il settore metallurgico europeo in forte stress.

In generale, parliamo di un trend globale, non solo europeo. Come di recente stimato da Benchmark Minerals Intelligence (BMI), potrebbero servire almeno 384 nuovi siti estrattivi per grafite, litio, nickel e cobalto per andare incontro alla domanda mondiale di batterie. Un’offerta che, senza interventi, il mercato posizionerà ben lontano dal nostro “cortile di casa” se continuerà a prevalere la sindrome “NIMBY” che tanto ha alimentato il dibattito nostrano sulle carenze di gas attuali. Con il risultato di aggravare l’attuale dipendenza e a cambiare il calcolo strategico di molti paesi esportatori: in situazioni di squilibrio tra domanda e offerta, molti di questi (Australia, Canada, Cile, Argentina, Sud Africa, Indonesia, Russia etc.) saranno incentivati a prioritizzare i consumi domestici, anche per scalare la catena del valore.

Quale soluzione? “I materiali critici sono materie prime strategiche e la loro fornitura non può più essere governata solo dalle forze di mercato”, chiosa Šefčovič. E’ una presa di posizione molto forte, che in parte esplicita maggiormente quando sostenuto da Breton e, in misura più blanda, da Valdis Dombrovskis, Commissario al commercio, che a luglio aveva parlato di pressioni geopolitiche che stavano “modificando la nostra prospettiva sulla politica commerciale”. Non a caso si parla da tempo di un intervento della Commissione in materia, con la proposta di un Raw Materials Act che trova conferma nelle dichiarazioni di Šefčovič.

Sono tre le linee guida che potrebbero concretizzarsi, all’interno della cornice del RePower EU, per affrontare le criticità più evidenti per un mercato interno più strutturato sul fronte materie prime. Da una parte, costruire una filiera domestica, a partire dal supporto a quei progetti minerari sul territorio europeo selezionando i depositi sulla base di un requisito (Strategic European Projects) che richiama quanto fatto per i semiconduttori. Le prime indiscrezioni guardano ad un ruolo importante dell’Europa Orientale, come confermato dal direttore di EIT Raw Materials, Bernd Schäfer. Con uno scrutinio sulla sostenibilità ambientale. Dall’altra, mobilitando l’European Investment Bank per assicurare gli investitori esteri diminuendo rischi e incertezze, ma soprattutto per dimostrare l’impegno delle istituzioni europee verso la transizione energetica e le responsabilità sullo sviluppo di filiere mine-to-market. Infine, sottoscrivendo un “nuovo patto sociale sulle materie prime” per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla loro importanza non solo per la competitività dell’industria europea, ma anche per opportunità di crescita, lavoro e innovazione nel settore digitale e soprattutto delle rinnovabili.

Affrontare la crisi energetica è certamente, e ragionevolmente, al centro delle priorità politiche europee. Tuttavia, ciò non dovrà distogliere l’attenzione dal fatto che accelerare giustamente sulla transizione per acquietare l’energy crunch nel medio periodo non porti a creare condizioni di rinnovata vulnerabilità e dipendenza, penalizzando il tessuto industriale. Servirà sicuramente in primis una nuova mentalità. Altrimenti questa drammatica crisi ci avrà insegnato ben poco.

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