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Ostaggi e petrolio, il Golfo sulla Russia vuole autonomia

I Paesi del Golfo hanno acquisito uno standing internazionale, rafforzato dal valore crescente dei prodotti energetici che esportano. Cercano un’autonomia che passa dal dialogo con le potenze globali e il coinvolgimento in certi dossier, senza retrocedere sulle proprie priorità strategiche

È molto probabile che il viaggio nel Golfo (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar) di Olaf Scholz, non si porti dietro tanto di più che qualche fornitura energetica a Berlino. Ossia, la visita del cancelliere tedesco non avrà impatti diretti sui mercati energetici – forniture Lng e prezzo del petrolio – come annunciato ambiziosamente alla partenza. D’altronde, prima di lui era toccato a Joe Biden non riuscire a raggiungere un risultato concreto su questo piano.

Non è tanto il ritocco alle produzioni petrolifere il quid, che potrebbe nel breve periodo anche non essere strettamente necessario. È piuttosto il fatto che quei Paesi del Golfo hanno ormai costruito uno standing internazionale, attualmente rafforzato dal valore eccezionale dei loro beni cruciali – i prodotti energetici – dopo gli scombussolamenti del mercato prodotti dalla guerra voluta da Vladimir Putin in Ucraina. E vogliono giocare la loro partita.

Riad e Abu Dhabi, così come Doha, sono ormai mondi profondi – ed è in corso un aumento di consapevolezza su questo fronte, come dimostra l’approccio tentato dall’Unione europea, di cui la visita di Scholz è per molti versi parte. Ma in questa consapevolezza rientra anche la comprensione che quei Paesi sono lanciati sul piano internazionale – fondando questo slancio sulle capacità economiche che le materie prime energetiche possono permettere, ma pensandosi molto di più di semplici contenitori di gas e petrolio.

C’è poi un aspetto tecnico sugli aumenti delle produzioni dei giacimenti, difficili se non impossibili come aveva spiegato il francese Emmanuel Macron a Biden a latere del G7 di giugno, raccontando una sua conversazione con l’emiratino Mohammed bin Zayed, e come svelato pubblicamente il mese successivo dal saudita Mohammed bin Salman (che aveva annunciato che l’Arabia Saudita era ormai verso il picco delle produzioni).

Ma non c’è dubbio che dietro ci sia una ragione politica: il Golfo cerca di crearsi una propria autonomia – anche aumentando il livello di cooperazione interna e di quella con le altre parti della regione. Complice anche una percepita rimodulazione dell’impegno regionale da parte degli Stati Uniti, quei Paesi stanno costruendo una sovranità strategica propria.

Questo significa che terranno aperto il dialogo con tutti – da Bruxelles a Mosca, da Washington a Pechino – ma non intendono accettare indicazioni senza prima controllare se queste coincidano con i propri interessi e la propria agenda di priorità. Però collaborano, dove possono, come possono, quando possono.

Doha ha per esempio espresso la propria posizione a favore dell’integrità e sovranità territoriale ucraina mentre Scholz era in Qatar. O ancora, Riad ha lavorato per il rilascio di alcuni prigionieri russi. Mediato direttamente dall’erede al trono bin Salman e dal suo entourage, il rilascio ha riguardato dieci prigionieri presi dai russi, di cui cinque di nazionalità inglese e due americana: i sauditi hanno fatto da piattaforma di dialogo e di smistamento logistico (chiaramente assistiti in fase operativa da intelligence occidentali).

Questa che il regno chiama “un’operazione umanitaria” in realtà nasconde sfaccettature politiche. Bin Salman infatti si dimostra capace di svolgere un ruolo diplomatico; accresce la statura sua e del suo Paese; contrasta la narrazione del principe capriccioso, impulsivo e assetato di potere con cui viene descritto da circoli occidentali; cerca di dimostrare che la posizione mediana assunta – adesso con la Russia, ma perché in futuro con la Cina – ha un valore intrinseco che può essere utile anche agli Stati Uniti e all’Europa.

Così come nel caso delle attività svolte dal Qatar con i Talebani, i Paesi del Golfo vogliono dimostrare di potersi impegnare su dossier internazionali e poter giocare al tavolo dei grandi. Di poterlo fare difendendo i propri interessi, comprendendo le necessità degli interlocutori, costruendo uno standing che superi alcuni preconcetti.

Uno di questi preconcetti sta nel relazionarsi col Golfo considerandolo solo un fornitore energetico: quei Paesi lo detestano, sebbene quelle potenzialità (economiche e geopolitiche) siano ancora alla base di quello standing finora acquisito.

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