Gli Stati Uniti organizzano un vertice con le nazioni insulari dell’Indo Pacifico per riaffermare il proprio impegno al fianco di quei Paesi che nella regione hanno un’importanza geostrategica e sono corteggiati dalla Cina. Washington adesso vede le priorità di quelle nazioni sul cambiamento climatico
Nello statement ufficiale diffuso dalla Casa Bianca non si parla di Cina, ma di “storia, valori e legami interpersonali” e poi si spiega che il summit che il 28 e il 29 settembre sarà ospitato a Washington tra gli Stati Uniti e i Paesi insulari del Pacifico “rifletterà l’ampliamento e l’approfondimento della nostra cooperazione su questioni chiave come […] la promozione di un Indo-Pacifico libero e aperto”.
Questo ultimo passaggio rende chiaro il perimetro della questione. “Free and open Indo-Pacific” è il concetto (ideato dal defunto premier giapponese Abe Shinzo) con cui gli Stati Uniti si approcciano alle attività cinesi nella regione. L’accusa di militarizzazione al fine di creare una dimensione egemonica è alla base di quella rivendicazione di libertà e apertura e passa dalla costruzione di un sistema di alleanze vocate al contenimento di Pechino.
Le nazioni minori, come quelle insulari, hanno una loro importanza in questo sistema geostrategico progettato. Washington cerca da tempo l’appoggio anche di questi Paesi dell’Indo Pacifico. Ma incontra difficoltà, e il summit che ci sarà tra tre settimane nella capitale statunitense dimostra che l’amministrazione Biden intende aumentare gli sforzi per contrastare la crescente influenza diplomatica della Cina nella regione.
Nell’ambito del confronto strategico con Pechino, l’amministrazione Biden percepisce la necessità di rinnovare i legami con quei Paesi — qualcosa di simile accade con l’Africa, e infatti è stato già annunciato un altro vertice con tutti gli attori del continente che si terrà alla Casa Bianca a dicembre. La diffusione cinese nell’Indo Pacifico è profonda (l’area è il naturale bacino di proiezione per Pechino), la regione ha una primaria importanza per i destini globali, e Washington non vuole rischiare di perdere capacità di dominio.
La vicende simboliche che alimentano queste preoccupazioni statunitensi non mancano. Per esempio: tre giorni fa, le Isole Salomone hanno annunciato che impediranno a tutte le navi militari straniere di attraccare nei loro porti. Una settimana prima, Honiara aveva lasciato senza risposta le richieste di attracco di una nave della Guardia Costiera statunitense e di una della Royal Navy inglese: pochi mesi fa le Isole Salomone hanno firmato un patto di difesa con la Cina.
Nel summit, Biden dovrà dimostrarsi credibile davanti all’allettante alternativa che il modello cinese offre, e spingere quel concetto di “democracy” oltre il flash trend scatenato in questi giorni. L’accordo con le Isole Salomone (firmato da Honiara nonostante l’ampio dissenso da parte di Australia, Nuova Zelanda, Giappone e chiaramente Usa) e il viaggio di dieci giorni del ministro degli Esteri, Wang Yi, tra i Paesi indo pacifici servono a forgiare il consenso attorno a Pechino (in particolare attorno alla Global Security Initiative pensata dal Partito/Stato come base di una governance dell’ordine mondiale che sia alternativa a quella a guida occidentale).
Allo stesso tempo questo attivismo cinese richiama l’attenzione di Washington, che non ha tanto il compito di costruire influenza — che già c’è ed è sostanzialmente ancora preferita a quella cinese. Gli Stati Uniti intendono dimostrare che non stanno perdendo contatto, che sono ancora il modello di riferimento e soprattuto tale resteranno in futuro. Questa è la grande sfida — che non riguarda solo le nazioni insulari dell’Indo Pacifico.
Per decadi, gli Usa si sono disimpegnati diplomaticamente con l’Oceania, per esempio, e questo ha aperto opportunità per la Cina di aumentare la propria influenza nella regione. Contemporaneamente — anche attraverso l’infowar cinese — è stata stimolata la percezione che gli Stati Uniti abbiano abbandonato la regione. Ora che siamo in una fase in cui si sta spingendo con forza l’opposto, Washington deve recuperare sulle proprie mosse e contro percezioni alterate che queste hanno prodotto.
Questo lavorio è palese, il summit di fine settembre è un punto di slancio e sintesi. Ad aprile, Daniel Kritenbrink, assistente del segretario di Stato per gli Affari dell’Asia Orientale e del Pacifico, e Kurt Campbell, coordinatore del Consiglio di Sicurezza Nazionale per l’Indo-Pacifico, hanno guidato l’iniziativa con un tour tra le Isole Salomone, le Figi e la Papua Nuova Guinea. A giugno, gli Stati Uniti, in collaborazione con l’Australia, la Nuova Zelanda, il Giappone e il Regno Unito, hanno lanciato la “Partners in the Blue Pacific” per “creare legami più stretti con i governi del Pacifico”, come spiegava la dichiarazione congiunta. A luglio, la vicepresidente Kamala Harris ha ospitato una riunione del Forum del Pacifico in cui ha annunciato che gli Stati Uniti avrebbero aperto ambasciate a Kiribati e Tonga e ripristinato i Peace Corps nella regione. Ad agosto, il vicesegretario di Stato Wendy Sherman ha convocato una riunione dei rappresentanti dei Paesi insulari del Pacifico a Wellington, in Nuova Zelanda.
Sherman ha promesso l’aiuto degli Stati Uniti per “contrastare la pesca illegale, non regolamentata e non dichiarata e sostenere uno sviluppo economico inclusivo”, che sono tra i temi che quei Paesi hanno a cuore insieme all’enorme, esistenziale questione del cambiamento climatico. Alcune delle nazioni insulari dell’Indo Pacifico vedono parte del proprio territorio a rischio esistenza sotto le azioni connesse al global warming, e questo è un punto di accesso per le attività americane — che con l’amministrazione Biden stanno recuperando sul pericoloso negazionismo del predecessore.
“Gli Stati Uniti devono preoccuparsi di ciascuno di questi Paesi e della direzione che prenderanno”, ha spiegato Howard Stoffer, professore associato di sicurezza nazionale all’Università di New Haven. “I cinesi offriranno loro denaro, quindi dobbiamo essere in grado di offrire loro altre cose, come una protezione militare strategica in caso di attacco e assicurare loro che stiamo rispettando i nostri obblighi nell’ambito dell’accordo di Parigi [sul clima], perché molti di questi Paesi saranno sommersi [a causa dell’innalzamento del livello del mare]”.
Nel 2015 il segretario del Partito Comunista Cinese m, il capo dello Stato Xi Jinping, ha annunciato la creazione di un China South-South Climate Cooperation Fund, su cui ha messo 3,1 miliardi di dollari per aiutare i Paesi in via di sviluppo a mitigare gli effetti del cambiamento climatico. Ad aprile, il viceministro degli Esteri cinese, Xie Feng, ha lanciato un Centro di cooperazione per l’azione sul clima per i Paesi insulari del Pacifico basato nella città di Liaocheng, nello Shandong. Secondo la narrazione di Pechino, il centro costruirà la capacità dei Paesi insulari del Pacifico di far fronte ai cambiamenti climatici.
Per gli Stati Uniti ricostruire uno scenario di influenza dominante in quell’area è importante anche dal punto di vista strategico militare. Diversi di questi Paesi insulari hanno un ruolo lungo le rotte che collegano l’Australia con il resto dell’Indo Pacifico. E il valore di Canberra nella strategia americana per la regione non è vicariabile; per dire, non è possibile pensare che l’Australia possa vedere l’accesso al Pacifico bloccato perché le Isole Salomone chiudono da nord il Mar dei Coralli. È un’iperbole chiaramente, ma nella pianificazione strategica questo genere di dinamiche da Risiko non mancano.
Mantenere le proprie priorità in ambienti indiretti deve però sposarsi con il rispetto di quelle altrui, e per Washington il momento è decisivo. Gli Usa devono dimostrarsi credibili davanti all’offerta cinese (un altro esempio: Capitol Hill fatica ad approvare un piano da 60 milioni per la resilienza climatica marina in Oceania, e questo è risibile davanti ai 3,1 miliardi promessi da Pechino). Contemporaneamente, gli Stati Uniti possono dimostrare eventuali debolezze, incongruenze, trappole del modello proposto dalla Cina — e diversi Paesi sono ricettivi su queste discussioni sui “rischi di lavorare con regimi coercitivi”, come aveva avvisato Sherman.
Se è vero che le questioni politico-militari sono in cima alla lista delle priorità statunitensi, ora gli Usa sono chiamati ad ascoltare le necessità di quei Paesi insulari che vedono nella protezione dai disastri del climate change la principale forma di tutela al loro sviluppo. Eventi come il summit che ci sarà a fine mese servono anche per dimostrarsi in ascolto.