L’Ue non ha varcato il Rubicone dello scontro globale con la Cina pur considerandola un competitor strategico che fa concorrenza sleale. E corre ai ripari. Bruxelles ha in cantiere una raffica di iniziative legislative che varranno erga omnes ma è sottinteso che siano indirizzate innanzitutto al contrasto della penetrazione cinese. L’analisi di Stefano Stefanini, senior advisor dell’Ispi e già rappresentante permanente d’Italia alla Nato
Le relazioni fra Unione europea e Cina sono cresciute e si sono infittite per più di trent’anni su una base di reciproca convenienza economica, commerciale e industriale. La dimensione politica internazionale vi faceva a malapena capolino, giusto in occasione di una visita del Dalai Lama o del conferimento del premio Nobel per la pace a Liu Xiaobo.
Gli europei guardavano alla Cina nel prisma economico; Pechino non considerava l’Ue un interlocutore geopolitico. La comoda prospettiva non regge più. Anche i rapporti sino-europei sono sotto l’ombra della competizione fra le grandi potenze, nella quale l’Ue è un attore riluttante, essenzialmente reattivo, ma capace di manovrare non indifferenti leve economiche e regolamentari.
Da mesi l’orizzonte cinese è dominato quasi ossessivamente dal XX Congresso del Partito comunista cinese (Pcc) che si apre il 16 ottobre. Sarà il momento dell’incoronazione di Xi Jinping col terzo mandato, premessa di leadership a vita. Il presidente cinese si presenta all’appuntamento con qualche affanno causato dal rallentamento economico (se non recessione) aggravato dalla politica di zero Covid sulla quale non vuol fare marcia indietro.
Per distogliere l’attenzione dalle difficoltà interne alza il tiro su Taiwan. Sull’isola l’Ue non è in prima linea ma ha una posizione molto chiara a favore del mantenimento dello status quo e contro l’uso della forza. Più Pechino alza i toni, più alimenta le frizioni anche con Bruxelles. Alla vigilia dello storico XX Congresso c’è nervosismo nell’aria, a Pechino. Lo testimonia l’improvvisa voce di colpo di Stato. Tutto ciò che increspa l’acqua infastidisce Xi Jinping.
Questo spiega l’ambiguo atteggiamento sulla guerra in Ucraina. Vorrebbe la fine delle ostilità, quindi tira per la giacca Putin, ma non rinuncia al matrimonio di convenienza con la Russia. Gli serve come alleato nel confronto globale con gli Stati Uniti. Il tentativo di salvare capra e cavoli rispecchia il problema di fondo che la Cina sta affrontando: come salvare la globalizzazione nonostante le divergenze geopolitiche e le rivalità che ne conseguono.
La politica spinge Pechino verso il confronto, e qui fanno gioco l’alleanza con la Russia e formati come l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco) o i “Brics” (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica); l’economia verso l’interdipendenza economica con l’occidente. Il versante occidentale ci sta ripensando. Per Washington il rapporto con Pechino è passato dalla globalizzazione allo scontro globale, non necessariamente militare ma di certo economico e tecnologico.
Di qui la politica di “disaccoppiamento economico dalla Cina” che sta spingendo le aziende tecnologiche statunitensi a trasferirsi parzialmente, soprattutto in Vietnam, e le nuove restrizioni legislative sulle esportazioni di chip. L’Unione europea non ha varcato il Rubicone dello scontro globale ma considera la Cina un competitor strategico che fa concorrenza sleale. E corre ai ripari.
Bruxelles ha in cantiere una raffica di iniziative legislative volte a contrastare quella che è considerata concorrenza sleale da parte dei “Paesi terzi”, che varranno erga omnes ma è sottinteso – e neanche tanto, visto che nel presentarle la Cina è spesso nominata, sia pure a titolo “esemplificativo” – che siano indirizzate innanzitutto al contrasto della penetrazione cinese.
Fra questi progetti si segnalano: la direttiva sulla rendicontazione di sostenibilità aziendale; il regolamento sulle sovvenzioni estere che distorcono il mercato interno; lo strumento anti-coercizione; la “carbon tax”; lo strumento per la protezione del mercato unico; il divieto d’importazione di prodotti realizzati sotto costrizione (“lavoro forzato”).
In questo clima di diffidenza verso la Cina, la ratifica dell’accordo globale Ue-Cina sugli investimenti (Cai), firmato a fine 2020, è congelata. Per il momento non ci sono ritorsioni. La Cina aspetta fino a quando la nuova legislazione non sarà definitiva, entrerà in vigore e il Made in China, o investimenti cinesi, saranno effettivamente colpiti. Nel frattempo l’atmosfera Ue-Cina si è inasprita.
Nonostante ciò gli europei, a cominciare dai tedeschi, sono riluttanti a tagliare i legami economico-commerciali con Pechino. L’Ue non vuole, o non vuole ancora, seguire gli Stati Uniti nel “disaccoppiamento” dalla Cina e vietare la tecnologia cinese. Bruxelles vuole mantenere le porte aperte riducendo però la dipendenza commerciale, specie dalle catene di approvvigionamento che originano in Cina. Questo fragile equilibrio si spezzerebbe facilmente qualora entrassero in gioco sviluppi esterni come l’assistenza militare cinese alla Russia o l’uso della forza contro Taiwan.