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All’anima del commercio. La crisi del rapporto Germania-Cina

Per oltre due decenni la seconda economia globale ha fatto man bassa di manifattura tedesca, garantendo solide entrate alle industrie europee. Ma ora, tra Pil col fiatone, nuovi lockdown e un ritorno all’autarchia, le vendite all’estero sono crollate. E Berlino paga dazio. Mentre la Francia…

E pensare che fino a poco tempo fa per la Germania era un porto sicuro, fonte di reddito e sostegno per le proprie imprese. Ora però, qualcosa si è inceppato e la Cina sembra essere diventata per Berlino più un cruccio che altro e non è un caso se Olaf Scholz ha deciso di essere il primo leader occidentale a tornare in Cina dall’inizio della pandemia, programmando una visita da Xi Jinping con tutto il mondo industriale tedesco. Fino ad oggi, la seconda economia globale ha rappresentato per l’industria tedesca una fonte di domanda primaria: componenti, tecnologia, motori. Il che garantiva alle imprese solide entrate.

Ora però, il rallentamento ormai conclamato della Cina, il collasso del mattone (che vale il 30% del Pil cinese) e la folle strategia zero-Covid hanno messo la mordacchia al Dragone, che non compra più come una volta, inguaiando la Germania. Come ha scritto il Financial Times, tanto per fare un esempio pratico, per più di 20 anni, Oliver Betz ha prodotto sensori per i produttori di motori cinesi dalla sua base a Monaco. Ma negli ultimi mesi le vendite della Systec Automotive in Cina sono crollate, scendendo di tre quarti.

Perché? La colpa, secondo gli imprenditori tedeschi, che insieme a quelli italiani sono la spina dorsale dell’Europa, è della crescita più lenta, della strategia zero-Covid di Pechino e di una sempre maggiore preferenza per l’acquisto di prodotti locali, a discapito della manifattura europea. L’esperienza di Betz sta infatti diventando sempre più comune tra le piccole e medie imprese tedesche. Altro esempio, le aziende del Mittelstand si rendono conto sempre più che non possono fare affidamento sulla domanda dei colleghi cinesi come facevano una volta. Insomma, per dirla con le parole di Jörg Wuttke, presidente della Eu Chamber of Commerce in China “è una storia d’amore finita”.

E pensare che dall’inizio del millennio, la Cina è passata dal rappresentare poco più dell’1% delle esportazioni tedesche a una quota del 7,5%, posizionandosi al secondo posto dopo gli Stati Uniti. Nel solo 2021 sono stati venduti più di 100 miliardi di euro di merci tedesche. Nel terzo trimestre del 2022, il Pil della Cina è cresciuto del 3,9% rispetto all’anno precedente. Per qualunque Paese, una crescita del 3,9% potrebbe essere una buona notizia. In Cina, però, queste stime hanno fatto crollare la Borsa di Hong Kong, portandola al livello più basso degli ultimi 13 anni. I dati dell’ufficio nazionale di statistica, infatti, confermano l’impossibilità di raggiungere gli obiettivi economici fissati a inizio 2022 dal governo cinese, che si aspettava di chiudere l’anno con un +5,5%. Una bella fregatura, anche e non solo per Berlino.

Gli altri, anche e non solo per colpa della frenata cinese (c’è di mezzo la drammatica crisi energetica), si regolano di conseguenza. La Francia, per esempio, sta estendendo la portata del suo sostegno fiscale all’industria nazionale attraverso nuove misure per combattere l’imminente recessione in Europa. E senza aspettare che Bruxelles metta il timbro definitivo sul price cap. Insomma, vista l’assenza di misure europee per abbassare i prezzi dell’energia a breve termine, l’esecutivo ha deciso di riprendere il controllo della situazione. Il messaggio che arriva dall’Europa è, dunque, di fare da sé.

Photo by Christian Wiediger on Unsplash


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