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La scure sull’export tech fa molto male alle aziende cinesi (e un po’ a quelle Usa)

Crollano le azioni dei giganti tecnologici del Dragone, compresi Alibaba e Tencent. La sfida di fronte cui si trovano è davvero complessa e ne va del futuro. Senza semiconduttori non c’è sviluppo. Anche molte aziende americane dovranno riconsiderare gli scambi con la Cina, e non sarà un processo senza conseguenze economiche

Le ripercussioni negative che sta avendo Huawei presto potrebbero subirle molte più aziende tech cinesi. È questo l’intento dell’amministrazione di Joe Biden, che venerdì ha pubblicato le nuove regole per l’export verso la Cina, molto più stringenti rispetto al passato. Per portare microchip in terra d’Oriente serviranno delle concessioni difficili da ottenere, così come molto complesso sarà per Pechino produrli con strumenti americani. Si tratta soprattutto di apparecchiature militari che Washington non vuole fornire per evitare che il suo competitor per eccellenza si possa rafforzare con il suo aiuto. Delle precise misure prese dal presidente statunitense già ne scrivevamo su questo giornale e l’effetto che queste potrebbero avere appare devastante.

“Per dirla in parole povere, stanno fondamentalmente tornando all’età della pietra” ha detto Szeho Ng, amministratore delegato di China Renaissance, parlando delle aziende cinesi. Le sue parole sono state confermate dai fatti, con le azioni dei due colossi Alibaba e Tencent (e di altre più piccole società) che sono scese quest’oggi per la paura degli investitori. La prima ha perso il 3,3%, la seconda invece 2,5%. La reazione potrebbe essere però a catena e l’impatto sembra essere diverso per ogni singolo caso, seppur sempre negativo. La Semiconductor Manufacturing International Corporation (SMIC) è scesa del 4%, Hua Hong Semiconductor Ltd del 9,5% e la Natura Technology Group di mezzo punto percentuale in più. Ancora: Sense Time, che fa ricerca sull’intelligenza artificiale, è crollata del 5,7% mentre Dahua Technology di quasi il doppio (10%).

Insomma, con quella che è stata la misura più stringente da parte statunitense nel suo scambio tecnologico con la Cina, le difficoltà di fronte cui sono state messe le aziende di Pechino è evidente. “Il progresso della memoria sarà limitato in quanto non vi è alcuna opportunità di aggiornare le apparecchiature di processo” coì come non c’è “nessuna opportunità di espandere la produzione e il mercato andrà perso”, ha dichiarato Gu Wenju, a capo della società di consulenza ICWise di Shanghai.

Il timore delle società cinesi, quindi, è di finire come la connazionale Huawei. Sebbene l’azienda possa continuare ad ottenere apparecchiatura americana, questa non include quella più avanzata, limitando di molto il suo progresso. Da quanto scrive il Financial Times, infatti, gli analisti della Bank of America hanno spiegato che le misure introdotte da Washington interessano i chip progettati nell’ultimo quinquennio, inclusi i chip Dram. A spaventare i produttori cinesi sono infatti soprattutto i semiconduttori, più che le attrezzature. Questo perché niente materiale innovativo vuol dire niente progresso, niente progresso significa una Cina che rimane dov’è sul lato tecnologico, mentre gli altri rivali crescono.

Ciò che si presuppone, infatti, è che aziende come la Taiwan Semiconductor Manufacturing, che già aveva espresso la sua piena disponibilità a collaborare per produrre “chip per la democrazia”, così come Intel. Non tutti però ridono. La lettera con cui il governo democratico ha comunicato alle varie aziende Usa come cambierà l’antifona (tra queste: Nvidia, Advanced Micro Device, KLA Corp, Lam Research Corp. e Applied Materials Inc) non è stata recepita con gioia. Molte di loro si vedranno ridurre il flusso di denaro che circolava tra gli Stati Uniti e la Cina, ma questa è una scelta di carattere nazionale su cui è difficile obiettare.

Anche a costo di un bagno di sangue. In tanti se lo aspettano, perché nonostante siano rivali sotto tutti gli aspetti Cina e Stati Uniti hanno un scambio commerciale importante, anche se le tensioni degli ultimi anni ne abbiano ridotto la portata. Come in questo caso. Secondo Paul Triolo, della società di consulenza Albright Stonebridge, “ci vorrà del tempo prima che l’impatto complessivo diventi chiaro, ma come minimo rallenterà l’innovazione sia in Cina che negli Stati Uniti, costando alla fine ai consumatori e alle aziende statunitensi centinaia di milioni o addirittura miliardi di dollari”. Un po’ come l’energia russa, per Biden bisogna tagliare la spina anche al settore chiave della Cina. Costi quel che costi.

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