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Bonaccini e la terra promessa per il Pd. Parla Parisi

L’ex ministro dem sui rapporti con il M5S:  “O il rilancio il Pd lo cerca e lo trova innanzitutto al suo interno o è destinato a perdersi comunque appresso ad altri”. Lo scetticismo sullo scontro con Elly Schlein, la necessità di un partito a ispirazione federalista che si arricchisce con le esperienze dei governi locali. “Di questo tipo di democrazia il Pd dispone forse come nessun altro partito”

Stefano Bonaccini, da Campogalliano (la sua terra), ha rotto gli indugi e si è candidato alla segreteria del Pd. Correnti, pressioni e il percorso per un dopo Letta che si annuncia tutt’altro che facile. Le incognite si susseguono. E per provare a districarci in questo ginepraio abbiamo chiesto lumi all’ex ministro dem, Arturo Parisi.

Che tipo di percorso prevede per il governatore?

Applichiamoci intanto al primo passo. Il suo circolo, la piazza che lo ha visto crescere, la sua famiglia. Già dice molto. Ripartire dalla propria storia. Dalla sua esperienza: di persona e di amministratore. Premessa della contestazione aperta “dei dirigenti – lui scrive tutti – di primo piano del nostro partito candidati nei listini e mai nei collegi uninominali” lontani dalle proprie comunità di provenienza. Diciamo pure una partenza controvento. Figlia di una scelta e dichiaratamente consapevole. “Mi è abbastanza chiaro che non avrò il sostegno di molti nel gruppo dirigente nazionale” leggo nel suo discorso di candidatura. Per uno figlio del mainstream del pci-pds-ds emiliano da Bersani a Errani, diciamo pure, sul piano personale e politico, una evidente discontinuità. Una discontinuità che cerca le sue radici in quella che 15 anni fa il Pd promise ma non mantenne. Se si potesse dirla con uno slogan, sembrerebbe la proposta di “un ritorno al futuro. Verrebbe da immaginare un futuro nel quale né i Congressi né le Assemblee Pd non si concludano più o meno all’unanimità. Sempre che ancora una volta il gruppone dirigente non decida di arrendersi già ora alla probabilità della sua vittoria per neutralizzarla rendendola ineluttabile.

Si configura, in questo contesto, uno strano derby: Bonaccini ‘sfiderà’ la sua vice Schlein. Si rischia un cortocircuito?

Chi sfida chi è tutto da vedere. Di certo il percorso prima evocato da Letta fin dalla sua acclamazione a Segretario, poi esplicitato dopo la recente dura sconfitta politica, e ieri finalmente sancito dal voto della Assemblea Nazionale non sembrava annunciare una candidatura come quella di Bonaccini, o, meglio una candidatura proposta in questi termini. Dire però che oltre che in funzione del ricongiungimento con i D’Alema e i Bersani con il loro Art.1 e la definitiva rottura con Renzi, questo percorso fosse pensato sulla misura di Elly Schlein, che si troverebbe ora quindi a rappresentare le ragioni della Ditta contro Bonaccini, mi sembra troppo. Anche se non possiamo dimenticare che alla vigilia della sconfitta è stato Letta a portare in prima fila sul palco del Partito in occasione della chiusura della campagna elettorale come unica “candidata progressista” una non iscritta al Pd come Elly Schlein proponendola come icona dichiarata dei diritti civili e consentendole di ripetere la sua esaltazione del Reddito di Cittadinanza e quindi il riconoscimento dei meriti del concorrente M5S.

In gioco, secondo il presidente emilano-romagnolo, c’è la vita stessa del partito. Concorda con questa lettura?

Vita è troppo. Considerato il radicamento e la ancora diffusa presenza del personale pd nelle amministrazioni locali penserei piuttosto ad un lento declino. Semmai sta proprio in questo il problema del Pd. Il ridursi della speranza nel futuro ma nel contempo l’assenza di una corrispondente disperazione. Il pessimismo sul futuro del partito, non è infatti incompatibile con l’ottimismo sul presente dei singoli dirigenti. Ognuno di loro pensa infatti di poter garantire ancora un futuro a sé stesso e magari anche ai propri figli. Se non nel proprio territorio in altri ancora favorevoli, sempre e fino a quando i dirigenti di questi territori lo consentiranno. È soprattutto a questo che servono le correnti. Questo in generale. È in questa dissociazione tra l’interesse collettivo e quello individuale che sta la relativa tranquillità che finora accompagnato l’elaborazione della recente sconfitta. Prima sostanzialmente negata attraverso il ridimensionamento della vittoria della destra, poi declassata a sconfitta non catastrofica.

Quindi c’è tempo per correggere la rotta?

Non sono i tempi del percorso il problema, comunque insufficienti a quel confronto serio associato alla pretesa di un congresso sia che voglia essere costituente di un nuovo partito o invece ricostituente di un vecchio. A mancare è invece il tempo, il ritmo lo spessore del confronto, della riflessione e della scelta. Quale essa sia. Non vorrei che bruciassimo i tempi e allo stesso tempo sprecassimo il tempo. Ma se questo dovesse capitare è perché nessuno può curare una malattia che non riconosce di avere. Fa bene Bonaccini ad evocare anche lui una lunga traversata di un deserto destinata a durare ben oltre l’elezione del nuovo segretario.E fanno bene tutti a riconoscere che nell’immediato tutto il problema sta nella scelta del Mosè di turno. Con la speranza che almeno lui creda e sia capace di evocare una Terra Promessa da raggiungere. Altrimenti dovremo riconoscere non solo che abbiamo perso ma ci siamo proprio persi. Ma questa volta purtroppo nel deserto.

Nel Pd, non è un mistero, c’è ancora una parte che ambirebbe ad andare a braccetto con il Movimento 5 Stelle (e il caso Lombardia lo dimostra). Pensa che questa possa essere la strada vincente per il ‘rilancio’ del Pd?

No. O il rilancio il Pd lo cerca e lo trova innanzitutto al suo interno o è destinato a perdersi comunque appresso ad altri. Quali che siano questi altri.

Il coordinatore dei sindaci dem, Matteo Ricci, chiede a gran voce più spazio per gli amministratori nel Pd. Dai territori potrà arrivare quell’impulso che si cerca per il dopo-Letta?

E ha ragione. Non solo lui ma anche Bonaccini ha evocato un modello alternativo a quello accentrato attorno ad un caminetto di capi alla guida delle loro correnti. Un partito ad ispirazione federalista che muove non dalle varie identità alternative ridotte a rendite che giustificando il comando alimentano le diverse obbedienze, ma dalle esperienze dei governi locali. Dalla capacità degli amministratori di partire dalla soluzione dei problemi, dalla tensione a cercare su questa il consenso, dalla consapevolezza che l’autorità si esercita nell’interesse di tutti e quindi a tutti deve rivolgersi assicurandosi comunque il sostegno della maggioranza dei cittadini. Di questo tipo di democrazia il Pd dispone forse come nessun altro partito di un personale quantitativamente esteso e qualitativamente competente. Un personale cresciuto grazie ad trentennio di esperienza di democrazia maggioritaria aperta dalla riforma del governo locale. È arrivato il momento che sia messo pienamente alla prova anche a livello nazionale.

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