Le proteste procedono in Cina. Le manifestazioni contro le regole sul Covid, eccessive ed esasperanti, si portano dietro istanze più profonde contro la leadership di Pechino. Tuttavia non siamo ancora davanti a una Tienanmen, spiega Giulia Sciorati, ricercatrice dell’Università di Trento ed esperta delle dinamiche cinesi, che invita a guardare alle Università e al simbolismo dello Xinjiang
Le proteste si sono diffuse nelle città e nei campus universitari di gran parte della Cina nella notte di sabato 26 novembre e stanno continuando riflettendo la crescente rabbia dell’opinione pubblica per i controlli draconiani sul Covid. La folla di Shanghai è diventata un simbolo internazionale delle difficoltà cinesi, con gli slogan contro il Partito Comunista (CCP) e il suo massimo leader, Xi Jinping. Una manifestazione di insofferenza non banale, visti i rischi repressivi e l’abitudine individuale, che si sta costantemente allargando.
Le manifestazioni più ampie hanno fatto seguito a un’ondata di rabbia diffusasi online poi diventata proteste in strada, scoppiate venerdì a Urumqi, la capitale regionale della complessa regione dello Xinjiang, dove giovedì almeno 10 persone sono morte e altre nove sono rimaste ferite nell’incendio di un appartamento. Molti cinesi sospettano che le restrizioni del Covid abbiano impedito alle vittime di fuggire dalle loro case.
Le autorità hanno respinto le accuse, ma ormai il flusso era in corso, con le manifestazioni contro le regole anti-pandemiche che sono in fretta diventate manifestazioni contro chi quelle regole ha implementato (le autorità locali) e pensato (il Partito Comunista Cinese e il suo leader, Xi Jinping). In tutta la Cina gruppi di persone hanno iniziato a rompere i lockdown e a rendere pubblica la propria esasperazione. Hanno affrontato il rischio di essere arrestati e accusati di reati pesantissimi; si sono messi contro le autorità in una forma non comune per la Cina.
Il leader cinese per la prima volta nel suo decennio di potere (sempre più assoluto) si trova ad affrontare una situazione del genere. Quale sarà la sua risposta? Secondo Giulia Sciorati, ricercatrice dell’Università di Trento esperta delle dinamiche cinesi, è prematuro lanciarsi in eccessive previsioni, scivolando magari nel paragonare la situazione alle proteste studentesche del 1989. In primis, per durata.
“Le proteste del 1989 sono durate mesi prima di arrivare al 4 giugno con occupazioni massicce di suolo pubblico in piazza Tienanmen e nelle università”, spiega a Formiche.net. “Inoltre, come hanno notato anche altri osservatori, nel 1989 uno degli elementi cardine dell’instabilità politica furono le voci discordanti all’interno del Partito sul modo in cui le proteste andassero gestite. Ricordiamo solo il famoso discorso di Deng Xiaoping del 2 giugno in cui furono apertamente messe le differenze all’interno del CCP, con Deng che riprese il premier Zhao Ziyang per la propensione a dialogare con gli studenti”.
Tornando a oggi, e detto che ancora sarebbe affrettato giungere a conclusioni più ampie rispetto all’evolvere dei fatti, resta che la situazione presenta elementi di complessità non banali per Xi. Anche riguardanti la tenuta della sua struttura gerarchica — sebbene finora si sia molto distanti dall’intaccare il sistema di potere del leader cinese.
Per Sciorati è importante notare il simbolismo legato alla regione autonoma dello Xinjiang nel susseguirsi delle proteste: “Oltre al più generale malcontento che sta alla base delle manifestazioni, ossia il proseguimento delle restrizioni legate alla politica Zero Covid, l’incendio di Urumqi è stato l’evento che ha scatenato, nella pratica, le proteste in corso. E infatti la marcia che ha segnato il momento più importante finora delle manifestazioni si è svolta lungo la Urumqi Road a Shanghai”.
Lo Xinjiang è una delle situazioni più delicate tra le sensibilità cinesi: il Partito/Stato vi ha organizzato delle campagne di rieducazione per controllare le minoranze turco-islamiche locali, considerate un problema per la sicurezza nazionale. Queste campagne sono state oggetto di varie denunce e analisi (anche da parte dell’Onu) perché violano i diritti di quelle minoranze.
Da notare inoltre che su quanto sta accadendo le Università e gli studenti — collettività generalmente più sensibilizzata da certe situazioni come quelle nello Xinjiang e tendenzialmente più aperta e interessata al mondo esterno — hanno un ruolo non secondario. “Sono circolate su diversi social due lettere aperte, una ricondotta a 40 studenti della Peking University (PKU) e una degli studenti della Qinghua University (quest’ultima, alma mater di Xi Jinping) in cui sono state presentate proposte riguardo la gestione della Zero Covid nelle università. PKU e Qinghua sono tra le università più storiche e prestigiose in Cina”, spiega Sciorati.
“Oltre alle proteste, è significativo notare che c’è stata un’esposizione importante da parte degli studenti riguardo il futuro dopo Zero Covid”, aggiunge l’analista. Zero Covid che invece è una policy ormai fatta diventare simbolica da Xi Jinping e dalla sua leadership. Ora si trova davanti a un dilemma. Mentre i primi allentamenti hanno portato a una crescita dei contagi — davanti alla quale i cinesi temono il ritorno di misure più restrittive, un aspetto che ha influito sulle proteste — ora, mentre dilagano le manifestazioni di scontento, concedere qualcosa a chi protesta, oppure stringere la cinghia ulteriormente? E su tutto, come muoversi senza sembrare debole?