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Rete unica, trasporti e acciaio. L’Italia a caccia di una politica industriale

A Palazzo Altieri il convegno organizzato dal Messaggero con il ministro del made in Italy Adolfo Urso e aziende pubbliche e private. Se l’Italia vuole tornare grande deve investire e difendere i propri asset. E sulle tlc, occhio alla troppa concorrenza. Gli interventi di Ferraris e Labriola

Se c’è una crisi, allora c’è anche una via d’uscita. E quella via potrebbe essere l’innovazione. Da dove partire? Sicuramente da obiettivi e regole. L’occasione è arrivata dal convegno organizzato dal Messaggero, nell’ambito della rassegna Molto Futuro, La crisi e l’innovazione, tenutosi presso le scuderie di Palazzo Altieri.

L’ORA DI UNA (VERA) POLITICA INDUSTRIALE

Il “la” lo ha dato uno degli ospiti più attesi, il ministro per il made in Italy, Adolfo Urso. Il quale è partito da una considerazione che più attuale di così non poteva essere: il futuro dell’Ilva, all’indomani dell’annuncio del fermo della produzione di 145 imprese dell’indotto da parte dell’azionista di maggioranza Arcelor Mittal. Invitalia, cioè lo Stato oggi socio al 38%, prenderà il controllo di Taranto al 60% solo nel 2024. “L’Ilva è la più grande acciaieria europea, fondamentale per la manifattura italiana ed europea e per questo occorre una chiara politica industriale che porti al mantenimento di questo asset strategico per il Paese”.

Secondo Urso, insomma, serve “una politica che valorizzi l’importanza del made in Italy: qualcosa di bello, buono, ben fatto e sostenibile. Vorrei che alla fine di questo quinquennio il mio ministero sia percepito non come ministero delle crisi ma delle opportunità. Lo Stato che non ostacola ma aiuta”. In precedenza il responsabile del made in Italy, era intervenuto a Mattino 5, tirando direttamente in causa la Cina. “L’Unione europea dev’essere consapevole che la transizione ecologica deve accompagnarsi alla riconversione industriale. Perché, dobbiamo assolutamente evitare di passare dalla sudditanza nel campo energetico alla Russia a quella nel campo tecnologico alla Cina. Se ci sono troppi lacci nella politica industriale non riusciremo a raggiungere l’obiettivo di rendere autonoma la nostra filiera dalla competizione di quei colossi che non rispettano gli stessi standard”.

INVESTIRE PER (NON) MORIRE

Poi la parola è passata ai manager. E qui Luigi Ferraris, ceo di Ferrovie, è partito dagli obiettivi sul piano da 190 miliardi predisposto dal gruppo di Piazza della Croce Rossa. “Un piano ambizioso, noi oggi abbiamo infrastrutture stradali e ferroviarie che hanno 70 anni, richiedono un adeguamento al fabbisogno dei tempi e del mercato. Il nostro blocco investimenti può essere diviso in 3 aree: investimenti pubblici destinati al mondo delle infrastrutture (110 miliardi su rete ferroviaria, 50 su strade), il resto è tutto autofinanziamento, ovvero sviluppo tecnologico, investimenti, logistica e poi il rinnovo della flotta, tra Fracciarossa, treni regionali e intercity”, ha spiegato Ferraris.

Non poteva mancare poi, quando si parla di trasporti, il tema della crisi energetica. “Siamo il primo consumatore di energia in Italia, ci stiamo muovendo per installare pannelli solari per fare autoproduzione nei 30 milioni di metri quadrati di spazi non utilizzati di cui Ferrovie dispone: potremo coprire circa il 40% di fabbisogno con 2mila megawatt di capacità al nostro interno”.

Secondo Vincenzo Onorato, ceo di Eteria, bisogna fare attenzione ai “ritardi della messa a terra dei progetti. Per poter realizzare progetti è necessario considerare l’offerta che manca da troppi anni. Non fare i conti con quali imprese si ha a che fare è uno degli errori più gravi che è stato fatto: c’è una desertificazione delle imprese, le aziende con fatturato oltre i 200 milioni sono passate dal 2011 oggi da 24 a 10. Nella fascia alta ci sono massimo 10 imprese generaliste capaci di realizzare progetti da 400-500 milioni, è necessario introdurre misure concorrenziali nell’interesse del mercato”.

SE DI (TROPPA) CONCORRENZA SI MUORE

E non esiste innovazione e dunque rinascita senza telecomunicazioni all’avanguardia. Il numero uno di Tim, Pietro Labriola, ha in tal proposito toccato il tema del consolidamento, a discapito di una concorrenza forse fuori misura e che passa anche e non solo attraverso la creazione di una società per la rete unica. “La domanda che c’è da porsi è qual era la politica industriale degli anni scorsi? Perché il risultato a cui siamo arrivati oggi è il risultato di un’assenza di politica industriale. Oggi il nostro Paese è un paese non in grado di avere 5 operatori mobili ma non perché il management dei 5 operatori mobili non è in grado di gestire ma c’è un tema di economie di scala. Con i dati ufficiali Agcom, se io proietto il trend degli anni passati e lo porto al 2024, tutto il comparto sarà ebitda meno capex negativo. Abbiamo un oggettivo problema”.

Poi, un appello a chi ha le redini del fisco. “Oggi l’Iva per il gas e la luce è al 10 e al 5%. Le tlc sono trattate come un servizio di lusso, come una pallina da golf, al 22%. Se vogliamo recuperare profittabilità e non vogliamo impattare sulle tasche dei consumatori, probabilmente bisogna ridurre l’Iva”.

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