La leadership europea cerca il dialogo con Washington per evitare che l’Inflation Reduction Act (IRA) si trasformi da strategia industriale anticinese a disputa commerciale con l’Unione europea. Nel frattempo, la Commissione accoglie numerosi feedback per la presentazione del prossimo regolamento sulle materie prime critiche. L’obiettivo: garantire al continente una maggiore autonomia strategica a supporto del Green Deal…
Nel bel mezzo della peggiore crisi energetica e securitaria dal Dopoguerra, oltre alla necessità di affrontare la trasformazione industriale green-tech in diretta competizione con la Repubblica Popolare Cinese, le due sponde dell’atlantico rischiano di trovarsi una contro l’altra su uno dei dossier più cruciali: la questione dell’accesso alle materie prime critiche per l’industria delle rinnovabili e non solo.
Per far fronte ad una dipendenza strategica dalla Cina e nel tentativo di rivitalizzare la filiera nordamericana, dalle miniere ai mercati, in un’ottica di decarbonizzazione l’amministrazione Biden ha varato lo scorso agosto una misura che il Dipartimento dell’Energia statunitense ha definito come “l’investimento singolo più massiccio sull’energia e il clima nella storia americana”. L’Inflation Reduction Act (IRA), infatti, prevede in varie forme circa 369 miliardi di dollari di incentivi green per accelerare l’adozione delle rinnovabili tra i consumatori e finanziarie nuovi poli minerari e produttivi, con lo scopo di favorire la fabbricazione di batterie elettriche, turbine eoliche, pannelli fotovoltaici e infrastrutture per l’idrogeno. La maggior parte dei quali concepiti per prodotti fabbricati da compagnie statunitensi.
È il caso, per esempio, delle esenzioni previste per i produttori americani di batterie: l’IRA, infatti, prevede per gli OEMs che dimostreranno di essersi approvvigionati sul suolo americano per i battery metals potranno ricevere uno credito d’imposta di 7500 dollari, oltre ad un ulteriore rimborso sui costi di produzione del 10% e circa 35USD/kWh per ogni cella prodotta negli Stati Uniti. In particolare, nel 2029 il 100% delle componenti delle batterie dovranno essere prodotte negli Usa per poter soddisfare i requisiti dell’IRA. Misure che hanno spinto Tesla a riconsiderare la costruzione di una gigafactory vicino a Berlino. Per quantificare la portata della sfida, il ceo di Northvolt Peter Carlsson ha dichiarato che l’azienda svedese potrebbe accedere a 836 milioni di dollari in aiuti federali tramite l’IRA, circa il quadruplo di quanto offerto dal governo tedesco.
In aggiunta, l’attuale spirale inflazionistica e il prezzo dell’energia elettrica – sul quale alcuni funzionari europei accusano gli Usa di speculare, tramite le forniture di gas naturale liquefatto (LNG) – rendono il contesto europeo meno allettante per nuovi investimenti, con il mercato americano che potrebbe assorbire potenzialmente una vera e propria emorragia industriale dall’Europa. L’amministratore delegato di Volkswagen, Thomas Schaefer ha similmente ricordato che i costi energetici sul vecchio continente mettono le gigafactories in difficoltà precarie, come accaduto a Britishvolt, oltre a ritenere le regole comunitarie sugli aiuti di stato obsolete di fronte alla portata della politica industriale americana.
Per scongiurare tali scenari e dunque l’escalation in una disputa commerciale con Washington, Bruxelles ha attivato una Task Force per affrontare bilateralmente la questione nella prossima riunione del Trade and Technology Council (TTC) che si terrà il 5 dicembre. L’obiettivo è quello di chiedere agli alleati di rispettare i principi del libero mercato e di una competizione sulle filiere tecnologiche green che non metta a repentaglio il fronte euro-atlantico, rendendo iniziative multilaterali – come la Minerals Security Partnership – del tutto inefficaci ai fini della re-industrializzazione.
Un’altra industria europea, cruciale per il Green Deal, è in seria difficoltà. I giganti dell’eolico, come la danese Vestas e la ispano-tedesca Siemens Gamesa hanno registrato importanti perdite nell’ultimo trimestre, rispettivamente di 150 milioni e 1 miliardo di dollari. Il motivo? L’inflazione crescente e la crisi delle filiere, registrati dall’aumento dei prezzi di materiali tradizionali come cemento, acciaio e zinco; la lentezza burocratica che rende il business incerto nonostante i target europei, su tutti il REPowerEU Plan (510 GWs entro il 2030); infine, la crescente competizione delle industrie cinesi, che dominano il mercato delle componenti più high-tech come i generatori e la supply chain dei magneti. Senza contare la dipendenza dai materiali per il medio-lungo periodo: in uno studio di Siemens Gamesa, “il primo del suo genere”, ha dichiarato il CEO Jochen Eickholt, si stima che per costruire turbine eoliche (onshore e offshore) necessarie per la transizione energetica europea al 2050 saranno necessari: 120 milioni di tonnellate di acciaio, 6.5 milioni di tonnellate di fibra di vetro, 1.6 milioni di tonnellate di fibra di carbonio, 1.3 milioni di tonnellate di rame, 800.000 tonnellate di alluminio e 100.000 tonnellate di terre rare. Seppur siano numeri relativamente piccoli rispetto ai volumi di produzione globali, l’industria eolica europea necessità di “un supporto forte e immediato dai decisori” per poter operare in “un contesto di mercato complesso”.
Ed è a partire dagli approvvigionamenti di materie prime e delle misure politiche a supporto che la Commissione dovrà intervenire per salvaguardare la competitività del mercato interno. L’European Critical Raw Materials Act vedrà la luce, plausibilmente, entro aprile 2023. Nel frattempo, si è chiusa una consultazione pubblica che ha visto diversi stakeholders condividere analisi e position papers, dalle industrie minerarie alle associazioni di categoria, centri di ricerca e privati: Rare Earth Industry Association (REIA), Eurometaux, Transport&Environment, EIT Raw Materials, Critical Raw Materials Alliance, Albemarle, ISPRA, Istituto Geologico Finlandese e Svedese, Northvolt, Rolls-Royce e Volkswagen sono solo alcuni degli enti interessati a plasmare la prossima normativa. Oltre il 60% le risposte dal settore privato, seguito da NGOs e istituzioni accademiche. Belgio e Germania le più rappresentate (19 e 14%), seguite da Spagna, Svezia e Francia mentre l’Italia è solo decima con il 4% delle interazioni. E’ evidente che i giochi si faranno in fase di stesura e negoziazione, ma sono numeri che già indicano da dove verrà la spinta propulsiva dell’intervento comunitario.
In generale, quello che emerge è la richiesta alla Commissione da una parte di prendere esempio dall’efficacia delle misure messe in piedi dall’alleato d’oltreoceano, dall’altra assicurare che lo EU CRMs Act possa essere concepito con standard e strumenti che riflettano le priorità strategiche europee. “L’Europa è ora in competizione con lo US Inflation Reduction Act e i suoi sussidi e incentivi fiscali per localizzare le filiere” si legge nel rapporto di Eurometaux, che aveva curato un importante studio sulla domanda europea di metalli per l’elettrificazione. Tra queste, spiccano l’istituzione di un “Fondo Sovrano Europeo” per assicurare gli approvvigionamenti necessari, la riforma degli aiuti di stato con una revisione degli IPCEI in funzione di “progetti strategici” stilati ogni anno dalla Commissione su materie prime di particolare rilevanza, il coinvolgimento delle istituzioni finanziarie europee per accelerare l’apertura di nuovi siti estrattivi a livello continentale, la richiesta di maggiore “coerenza” delle normative ambientali e le necessità strategiche dell’Unione, il rafforzamento dei meccanismi di “difesa commerciale”, anti-dumping per proteggere i settori trasformativi, come l’industria della raffinazione dei metalli europea, dalla competizione estera (soprattutto cinese), misure di incentivo per i consumatori (le industrie e gli operatori delle rinnovabili) a privilegiare prodotti high-tech europei puntando sugli standard e la maggiore tracciabilità dei materiali, anche in un’ottica circolare, oltre a coinvolgere i Paesi ricchi di risorse in una strategia olistica e più proattiva per assicurare le forniture. Il tutto senza dimenticare il contesto: l’attuale crisi energetica è un elemento di rischio per la maggior parte degli investimenti e dei progetti lungo la filiera delle materie prime europea, come ricordato pocanzi.
Nel giro di qualche mese vedremo come e se queste proposte verranno accolte. Quello che è già chiaro è la portata del regolamento di fronte alle difficoltà di un coordinamento transatlantico. Il Critical Raw Materials Act potrà essere efficace soltanto se saprà catalizzare un ripensamento complessivo della strategia industriale dell’Unione europea, al pari di quanto annunciato con l’omologo Chips Act e degli effetti, già concreti, dell’IRA statunitense.
“In uno scenario di crisi permanente”, si leggeva nella nota di annuncio, “l’UE dovrà trovare i mezzi per gestire la globalizzazione in maniera differente. Dovremo essere più assertivi e meno ingenui nel difendere i nostri interessi economici e i nostri valori. Incluso quando ci si imbatte nelle materie prime strategiche”. Un fronte complesso, su cui si giocherà parte della competizione tecnologica: difficile prevederne gli esiti se dovessero prevalere elementi di conflitto, e non di cooperazione, da una parte e l’altra dell’Atlantico.