Dopo i vertici europei e gli incontri con Stoltenberg e Biden, per il premier si apre la fase dell’azione. “La Libia? Serve trovare un approccio comune con l’altro paese che ha influenza, ovvero la Francia”. Il processo di adesione all’Ue dei Paesi balcanici, i nuovi legami energetici con l’Africa: l’ambasciatore Stefanini analizza i singoli dossier
La politica estera del nuovo governo italiano ha debuttato all’insegna della continuità. Non c’è da meravigliarsi. Le relazioni internazionali non si improvvisano. La politica estera – di qualsiasi governo – riflette interessi nazionali di lungo periodo.
Giorgia Meloni si è subito guadagnata le credenziali atlantiche riaffermando la posizione italiana sulla guerra in Ucraina e il sostegno a Kiev A Bruxelles, è rimasta nel solco europeista. Il Pnrr ereditato dal governo Draghi si può ritoccare ma non mettere in discussione, sarebbe autolesionismo. La premier ha dato assicurazioni di responsabilità fiscale, niente finanza allegra come ventilavano suoi alleati interni. Sulla stretta energetica, l’Italia mantiene la richiesta di tetto al prezzo del gas nel difficile negoziato inter-Ue che la vede allineata con una quindicina di Paesi, fra cui l’alleato più importante è la Francia. Motivo in più per affrontare senza retorica e senza isterismi reciproci la controversia sull’immigrazione con Parigi.
Se la Francia riesce a trovare un accordo sbarchi illegali attraverso la Manica con il Regno Unito, rappresentato da una Home Secretary, Suella Braverman, che su immigrazione non ha nulla da invidiare ai sovranisti continentali, non c’è motivo per Roma e Parigi di non fare lo stesso. Le circostanze sono diverse ma le dinamiche sono analoghe e i numeri comparabili. A condizione di parlarne. Il mancato bilaterale Macron-Meloni a Bali è un’occasione persa. Si può recuperare. E, prima o poi, il nodo immigrazione andrà affrontato in sede Ue dove finora sono stati trovati solo palliativi. Ma anche questa non è una novità, bensì un problema col quale si sono scontrati, chi più chi meno, tutti i governi italiani.
Individuati i grandi cardini della politica estera italiana, di ritorno dal battesimo del fuoco di Bali, Georgia Meloni deve anche guardare ai quadranti regionali dove l’Italia conta e rischia di più e dove sono i nostri interessi sono più diretti e marcati.
Balcani
Osservando che una delle nostre aree prioritarie sono i Balcani, il ministro della Difesa Guido Crosetto mette il dito sulla piaga. Non è soltanto una questione legata al ruolo dell’Italia nella missione di stabilizzazione Nato in Kosovo (Kfor). Il problema, ben più ampio, è di completare l’integrazione dei Balcani occidentali – ex-Jugoslavia più Albania – nelle due organizzazioni che garantiscono pace, sicurezza e prosperità in Europa: Ue e Nato. Adesso, tuttavia, siamo giunti al punto in cui l’Alleanza Atlantica ha pressoché esaurito la capacità di allargamento mentre l’Unione procede al rallentatore generando una sindrome di sfiducia nella regione.
Ad eccezione del Kosovo e della Bosnia Erzegovina, tutti i Paesi dei Balcani occidentali che lo volevano sono ormai nella Nato – non la Serbia che non lo vuole – ma tutti sono solo candidati all’Ue senza ancora una prospettiva temporale di adesione. Non c’è dubbio che il processo di adesione all’Ue sia necessariamente lungo e debba rispettare i parametri dello Stato di diritto, dell’indipendenza della magistratura, della trasparenza amministrativa, della divisione dei poteri e dell’economia di mercato. Sono I requisiti sine qua non di una democrazia europea sui quali non si può transigere. Ma bisogna anche che i candidati che si stanno impegnando per realizzarli vedano l’adesione come un traguardo raggiungibile in un orizzonte temporale ragionevole, non come un miraggio. Dal 2013 (ingresso nell’Ue della Croazia) non è sempre così.
Ai candidati occorre una visione del punto di arrivo. E su questo l’Ue è stata spesso troppo vaga.
Criterio della regata
Dopo Zagabria l’Ue ha segnalato un rallentamento degli allargamenti e adottato un approccio “per gruppo” che, di fatto, costringe i Paesi ad aspettare quelli più lenti. Il risultato è stato di fermare tutti. Oggi, nei Balcani occidentali, pochi credono in un futuro Ue. Si è creata una mentalità da limbo. Dovremmo invece tornare al criterio meritocratico della regata: chi è pronto e taglia il traguardo vince il premio della membership. Se vi sono Paesi che fanno tutti compiti a casa, avanzano più rapidamente nel negoziato con l’Unione europea, e superano gli esami cui li sottopone Bruxelles, devono poter entrare nell’Unione europea senza aspettare i ritardatari. Anche perché c’è un ritardatario che rischia di condizionare tutti gli altri.
La Serbia deve scegliere
Belgrado è indubbiamente è la pedina più importante del mosaico balcanico. Ci sarà sempre un rischio di instabilità se la Serbia rimane fuori dall’architettura regionale. Tuttavia, le candidature degli altri Paesi non possono rimanere ostaggio delle esitazioni serbe. Che hanno due principali dimensioni. La prima è l’allineamento all’Ue in politica estera. La Serbia non aderisce alle sanzioni alla Russia e non mostra alcuna intenzione di farlo. Questo poteva essere un problema non marginale ma temporaneamente accantonabile fino al 23 febbraio di quest’anno. Non lo è più dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Non lo è più con la guerra in corso. L’equidistanza tra Bruxelles e Mosca è oggi una deviazione che allontana troppo Belgrado da tutti i Paesi dell’Unione europea. E, più passa il tempo, più il divario si allarga.
Due casi aperti: Kosovo e Bosnia
Un problema di fondo dei Balcani occidentali è l’irrisolta, di conseguenza instabile, situazione in Bosnia Erzegovina e in Kosovo. Il non riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo da parte della Serbia blocca al Kosovo l’accesso alle organizzazioni internazionali ma blocca anche la prospettiva europea della Serbia. La Serbia non potrà mai essere un Paese membro dell’Unione europea se non riconoscerà il Kosovo come Stato sovrano e indipendente. Questo è un un passo che fino adesso Belgrado, pur con una corrente alternata dii segnali concilianti nel dialogo con Pristina via Ue, non ha saputo o voluto fare fare.
Quanto alla Bosnia, è semplicemente paralizzata dalla non collaborazione dell’entità serbo-bosniaca. Solo la residua presenza internazionale riesce ad ostacolare – finora – le velleità secessionistiche di Banja Luka.
Mediterraneo e Africa
L’altro asse di riferimento regionale della politica estera italiana è Mediterraneo, specie il Mediterraneo occidentale, e il Nord Africa. Questa è la parte del mondo da cui dipende oggi in larga misura il nostro fabbisogno energetico orfano della Russia.
Il governo Draghi si è mosso molto bene per sostituire il gas russo con una diversificazione di forniture, molte delle quali di provenienza africana. È una prospettiva che può fare dell’Italia un hub di rifornimenti energetici per l’intera Europa, “da Sud a Nord”, vie gasdotti già esistenti cui basta invertire il flusso, come illustra Maurizio Molinari nel Ritorno degli Imperi. Africa, Nord Africa e Mediterraneo diventano per noi più importanti che mai.
Alla dimensione energetica se ne aggiungono altre due: sicurezza – il terrorismo è vivo e vegeto nel Maghreb e nel Sahel; migrazioni. Questo richiede anche un intelligente equilibrio nei rapporti con i principali Paesi della regione. L’Algeria è un partner fondamentale per rifornimenti energetici, ma occorre mantenere sullo stesso piano di amicizia e cooperazione le relazioni con il Marocco.
Libia
Nessun Paese riassume le tre dinamiche – sicurezza, energia, migrazioni – più della Libia, Paese con cui l’Italia ha dei legami molto forti, vicinanza geografica, interessi consolidati, e potenzialità di sinergie economiche e commerciali. Una Libia stabilizzata apre al rilancio di relazioni economico-commerciali che chiedono solo di essere riattivate. L’Italia ha quasi eroicamente tenuto aperta l’ambasciata a Tripoli durante la crisi libica, unico Paese europeo e occidentale a farlo, È stata chiusa soltanto poco più di un anno. Questo però non è bastato. Sono entrati in scena altri attori come Russia e Turchia che hanno guadagnato influenza sostenendo attivamente – in campi opposti – le parti del conflitto libico. L’Italia ha sostenuto le Nazioni Unite. Profeti disarmati in un conflitto armato, abbiamo avuto poco peso.
Per recuperare terreno: occorre continuare a lavorare sul campo con tutte le parti libiche e favorire, compatibilmente con le esigenze di sicurezza, ristabilimento di legami e collaborazione economico-commerciale. Sul piano politico-diplomatico occorre operare di concerto con l’altro Paese che ha presenza e influenza – la Francia. Altro motivo per cui c’è bisogno di riannodare il dialogo con Parigi. Insieme, possiamo cercar di controbilanciare le influenze esterne che spingono verso la disgregazione e sostenere invece un processo di dialogo e riconciliazione nazionale sotto l’ombrello Onu. E, chissà, spingere l’Ue ad un ruolo e profilo più attivo.
Ma non aspettiamoci che l’iniziativa venga da Bruxelles. Dobbiamo stimolarla noi, e cercar di avere dalla nostra parte Parigi e Berlino, forse coinvolgere Londra che mantiene Nord Africa e Mediterraneo sullo schermo a scanso di equivoci postcoloniali: l’obiettivo geopolitico e di sicurezza dev’essere una Libia libera quanto più possibile da nefaste ingerenze esterne.