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Parte il governo Netanyahu, in equilibrio tra Riad e Teheran

Contenere l’Iran, avvicinare l’Arabia Saudita. Per il governo Netanyahu che nasce oggi, la sfida sta nel superare le posizioni ideologiche interne per muoversi con pragmatismo nei grandi dossier internazionali di primario interesse (anche di Washington)

Se il timore di un Iran nucleare è ancora (o meglio: adesso più che mai) la principale minaccia che il nuovo/vecchio governo israeliano si trova davanti, la possibilità di costruire una partnership con l’Arabia Saudita è una speranza. Sono questi due i capisaldi strategici su cui l’esecutivo di Benajamin Netanyahu — che oggi, 29 dicembre entra di fatto in azione — si troverà a lavorare.

Il ritorno al governo di Bibi è segnato da questi due dossier anche perché nei pochi, recenti mesi di opposizione ha più volte dedicato spazio ai due temi (e a una serie di questioni correlate) per accusare i governi rivali di essere troppo deboli o poco incisivi, aggiungendo spunti sulle sue teoriche capacità (migliori) nel raggiungere su entrambi campi risultati (maggiori).

Nella realtà, sia il contenimento di Teheran che la possibilità di normalizzare i rapporti con Riad non rientrano completamento nelle potenzialità di Netanyahu, perché tendono a essere questioni molto complicate in cui le volontà politiche del premier israeliano segnano solo una porzione delle forze in campo.

Il governo che Netanyahu si appresta a guidare è “il più di destra e religiosamente conservatore della storia di Israele”, per dirla come l’Associated Press, includendo figure dell’ultra-destra nazionalista dei cananisti. E questo è già un fattore di complicazione certo nell’affrontare entrambi i dossier. Con l’Iran, il rischio è di impelagarsi in un confronto troppo serrato che potrebbe portare verso derive armate. Con l’Arabia Saudita le difficoltà di comprensione di mondi diversi può non essere d’aiuto in un eventuale dialogo.

La formazione dell’esecutivo insieme a figure considerate estreme dal mondo arabo — per le loro visioni ultra-radicali — era già stato segnalato come un problema da alcuni Paesi parte degli Accordi di Abramo. Di fatto è un tema che non altererà gli equilibri creati, spiega una fonte araba, “ma conta per la retorica”. E non è un segnale positivo per coltivare la speranza che Riad diventi in qualche modo parte della formula di normalizzazione con Israele, cosa che Netanyahu sogna sin da quando ha costruito l’intesa con l’amministrazione Trump.

Va detto che il nuovo corso del potere saudita non disdegna l’idea di aumentare connessione e collaborazione con Israele, ma per una formalizzazione il momento potrebbe non essere ancora adatto. Se finora la tempistica (complicata dal ruolo austero che Riad occupa di custode dei luoghi sacri islamici) è stata più collegata alla salita al trono dell’erede Mohammed bin Salman, ora — con questo esecutivo — potrebbe anche esserci da parte saudita la volontà di evitare scivoloni di immagine. D’altronde, gli oltranzisti ci sono pure nel regno.

La composizione del governo potrebbe avere un peso anche sull’altro dossier, l’Iran, sia in modo diretto che indiretto. In questo secondo caso la partita è giocata in modo incrociato con gli Stati Uniti. L’amministrazione Biden è preoccupata per il nascente governo Netanyahu, ma ha promesso di dargli una possibilità e di giudicarlo dalle sue azioni piuttosto che dalla retorica radicale dei suoi membri.

Ciononostante, tutti i segnali indicano una netta discrepanza tra le basi ideologiche del governo e i principi e le politiche della Casa Bianca di Biden. Ciò può avere un peso nella possibilità che Washington lavori per costruire un ponte con Riad — lavoro su cui l’influenza potrebbe essere molto relativa, se si considera che il rapporto saudi-americano non è in una fase brillante. Ma questo può essere anche un fattore nella gestione dell’Iran.

L’amministrazione Biden era convinta della possibilità di ricomporre il Jcpoa, l’accordo del 2015 per congelare il programma atomico iraniano che Netanyahu ha sempre detestato e su cui trovò un momentaneo successo convincendo Donald Trump a decidere per un’uscita unilaterale e dunque mettendo in crisi il sistema dell’intesa. Ora Washington sta quasi rinunciando (sebbene non ancora formalmente) a quella composizione.

L’Iran è un attore internazionale con cui è diventato quasi impossibile dialogare alla luce del sostegno offerto alla Russia in Ucraina e alle sanguinose repressioni contro le proteste. Netanyahu calca molto sul primo aspetto, ma difficilmente otterrà dagli Usa una copertura diplomatica e militare per soluzioni drastiche come quella di un attacco chirurgico e preventivo contro le strutture atomiche iraniane. Altrettanto difficilmente gli Stati Uniti saranno coinvolti nella gestione delle fasi successive all’attacco. Almeno nel brevissimo periodo, almeno se non si presentano condizioni di emergenza.

Ben Caspit, un giornalista molto esperto di Israele e dei suoi rapporti con gli Stati Uniti, ricorda su Al Monitor che durante  il secondo mandato di Barack Obama, Netanyahu respinse le sollecitazioni statunitensi a fare concessioni ai palestinesi in cambio di una più stretta cooperazione degli Stati Uniti sull’Iran. La formula era soprannominata dai suoi oppositori “Bushar per Yitzhar” (prendendo da esempio l’impianto nucleare iraniano in cambio del contenimento delle attività nell’insediamento ebraico di Yitzhar in Cisgiordania). Uno dei principali oppositori di quella proposta era il membro della Knesset Bezalel Smotrich, che — insieme al suo compagno politico ultra-radicale, Itamar Ben-Gvir — è una di quelle figure poco condivise all’esterno che sono diventate parte del nuovo governo Netanyahu.

La non volontà di fare concessioni sul dossier palestinese peserà in modo incrociato anche con l’Arabia Saudita. Sia nel cercare di stabilire relazioni formali con Riad, che potrebbero essere legate ai colloqui di pace israeliani con i palestinesi e alla rinuncia sui piani di annessione della Cisgiordania; sia sul coinvolgimento di Washington in questi contatti.

Per Netanyahu, tuttavia, resta il pragmatismo. Inglobare le politiche regionali degli alleati è una volontà strategica per gli Stati Uniti, e dunque una forma di Accordi di Abramo non ufficiale tra Israele e Riad sarebbe un grande successo geopolitico anche per Washington. Altrettanto l’Iran: contenerlo è fondamentale anche per dare stabilità all’allineamento arabo-israeliano. Per Netanyahu (e per Israele) così come per Riad, migliorare i rapporti reciproci è dunque vantaggioso. E però è un esercizio che richiederà equilibrio — su cui Netanyahu ha già provato a dare garanzie.


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