Un Paese che viene redarguito dall’Organizzazione mondiale della sanità perché nasconde i dati sul Covid e sulle campagne di vaccinazione rischia di perdere la sua credibilità. E lo stesso discorso vale sul piano politico-simbolico e della comunicazione politica
Negli ultimi tempi in Cina si sono verificate tre novità importanti. Grandi manifestazioni di piazza contro il lockdown (come in Cina non se ne vedevano da decenni), conseguente e improvvisa eliminazione – dopo 3 anni – della ossessiva e ossessionante politica dello “Zero Covid”, autorizzazione ad alcune banche estere (statunitensi in primis) a comprare e controllare società finanziarie cinesi. L’informazione su che cosa accade veramente nel Dragone resta ancora limitata, ma questi tre fatti meriterebbero molta più attenzione dei media e dell’opinione pubblica.
Come ha autorevolmente osservato Francesco Sisci, in Cina il Covid-19 è stato affrontato con un approccio troppo ideologico e nazionalista che mal si addice a una lotta contro un virus da pandemia. Perché per combattere un virus non avvalersi della cooperazione medico-scientifica internazionale, vaccini compresi? Qualcuno si ricorderà che nei primi mesi drammatici della pandemia le delegazioni dei virologi cinesi hanno espresso giudizi sprezzanti sul nostro sistema sanitario; peccato – come si è potuto constatare negli anni successivi – la Cina non é stato certo in grado di dare lezioni al resto del mondo. Anzi.
Negli ultimi tempi il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità ha espresso critiche severe alla gestione della pandemia in Cina in palese contrasto con la morbidezza verso il Dragone che lo stesso Tedros Adhanom Ghebreyesus aveva platealmente manifestato nei primi mesi del 2020. Non c’è dubbio che la scarsa trasparenza e la “ideologizzazione” della leadership nella gestione del Covid hanno diminuito la fiducia del mondo nei confronti della Cina.
Questo per quanto riguarda l’esterno fuori dai confini cinesi, ma la perdita di fiducia ha riguardato anche il fronte politico interno. La vastità delle proteste popolari in tutte le principali città cinesi ha interpretato i sentimenti di decine e decine di milioni di cittadini esasperati dando luogo ad una mobilitazione ben più ampia e capillare rispetto alle vicende di piazza Tienanmen. Poche settimane dall’inizio delle proteste il governo ha colto la profondità del dissenso e in particolare i pericoli per la stabilità politica del regime. Da un giorno all’altro la rigida e ottusa politica “Zero Covid” è stata abolita. Se questo ha dimostrato una buona capacità della leadership di cogliere prontamente – per usare una espressione di Niccolò Machiavelli – gli “umori del populo”, dall’altro lato non si deve dimenticare il tema della repressione. Nessuno conosce il destino dei organizzatori delle proteste arrestati con il supporto della sofisticata sorveglianza tecnologica di massa di cui possono avvalersi le forze di sicurezza e il Partito comunista cinese – come ha dimostrato ampiamente il caso di Hong Kong. La repressione poliziesca è un’altra rilevante zona d’ombra che incrina la fiducia internazionale nel regime.
Il terzo elemento di novità a cui ho accennato all’inizio è l’apertura agli investimenti finanziari stranieri, statunitensi in primis. L’autorizzazione a Jp Morgan (e ad altri istituti finanziari internazionali) di operare autonomamente nel mercato finanziario cinese rappresenta una grande novità. Sinora, infatti, le società estere potevano detenere soltanto pacchetti azionari di minoranza all’interno di joint-venture in cui chi contava veramente erano erano gli esponenti del Partito comunista cinese e/o altri soggetti cinesi.
Questa decisone dimostra quanto la Cina abbia bisogno di investimenti finanziari stranieri, ma nel contempo sconta anni di diffidenza per la scarsa trasparenza, per le interferenze indebite e per la corruzione politica che sinora hanno impedito la realizzazione di un mercato finanziario fondato su concorrenza leale e su adeguate regole di controllo e trasparenza. Senza libertà di informazione questo diventa impossibile perché si torna al tema cruciale della fiducia. Il fatto che la Consob cinese abbia consentito a Jp Morgan Asset Management di assumere il controllo della società China International Fund Management e di integrarla nel modello operativo di Jp a livello globale è una novità assoluta. Tuttavia di per sé non basta. Quali saranno gli effettivi margini di libertà di cui potrà disporre Eddy Wong (oggi a capo di China International Fund Management) nonché futuro amministratore delegato di Jp Morgan Asset Management China?
Wong ha dichiarato di essere felice che la società che dirige entri nella famiglia Jp Morgan. Appartenere alla famiglia Jp Morgan di per sé non garantisce che in Cina si formi un mercato finanziario in linea con gli standard internazionali, in termini di libertà, compliance, controllo e trasparenza. In questo momento la leadership cinese sembra fare sul serio in tema di opening up sul fronte economico. Tuttavia, è difficile sapere se vorrà (o sarà in grado) di mantenere davvero le sue promesse di apertura. Quel che è certo che deludere gli investitori stranieri per la Cina sarebbe un boomerang terribile. Dopo le esperienze passate nessuno ci crederà più. Per una autocrazia monopartitica consentire una maggiore libertà di informazione è una grande montagna difficile da scalare. Ma la fiducia è un fattore chiave e se non c’è un minimo di trasparenza la fiducia è destinata a svanire.
La Cina, anche per uscire dalle sue notevoli difficoltà economiche contingenti, soprattutto in campo immobiliare e bancario, deve attrarre consistenti investimenti finanziari stranieri integrandosi maggiormente con il sistema finanziario internazionale. Per raggiungere questo obiettivo è indispensabile offrire ai risparmiatori e agli operatori finanziari un quadro attendibile del proprio Paese. In Cina viceversa ci sono ancora troppi misteri. Un Paese che viene redarguito dall’Organizzazione mondiale della sanità perché nasconde i dati sul Covid e sulle campagne di vaccinazione rischia di perdere la sua credibilità. E lo stesso discorso vale sul piano politico-simbolico e della comunicazione politica.
Mi riferisco a episodi spesso difficili da decifrare, ma proprio per questo destinati ad alimentare diffidenza dei potenziali investitori, dei risparmiatori e dei governi stranieri verso la Cina. Nell’ottobre le immagini dell’ex presidente Hu Jintao prelevato (di forza?) dai banchi del XX congresso hanno fatto il giro del mondo. È naturale che tutti si chiedano cosa è successo? In questo campo il silenzio e/o la reticenza non hanno pagato e non pagheranno in futuro.
La Cina di oggi ha di fronte a sé un bivio che si riassume nella formula “opening up” ovvero aprirsi o non aprirsi al mondo? Nel corso del 2023 vedremo se le promesse di opening up sono reali. Nel frattempo l’Unione europea, gli Stati Uniti e tutte le democrazie del mondo devono tenere i riflettori ben accesi su tre indicatori strettamente intrecciati della politica cinese: a) andamento della pandemia e cooperazione sanitaria internazionale; b) capacità di attrazione di capitali stranieri e integrazione nel sistema finanziario internazionale; c) allentamento della repressione e della censura.