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Raid in Iran. Le mosse di Usa e Israele, il fattore Russia

Se Israele ha colpito l’Iran, lo ha fatto per interesse diretto e preoccupazioni per la propria sicurezza nazionale. L’aiuto fornito da Teheran a Mosca in Ucraina rende queste azioni più potabili, mentre la Repubblica islamica cercherà di proteggersi e reagire con resilienza

Un attacco aereo ha centrato, durante la notte appena trascorsa, un convoglio di autocarri probabilmente collegati alle milizie sciite guidate dai Pasdaran. I mezzi viaggiavano lungo il confine tra Siria e Iraq, nei pressi del villaggio siriano di Al Bukamal, nel governatorato di Deir Ezzor, a due passi dal territorio iracheno – tanto che da Al Qaim, città speculare in Iraq, alcuni testimoni hanno raccontato di credere che il bombardamento stesse avvenendo nella loro cittadina. Per il momento non c’è un autore ufficiale del raid, e forse mai ci sarà. Tuttavia quella zona è stata varie volte bersagliata da velivoli israeliani e americani. Washington, che in altre occasioni ha comunicato certi tipi di azioni, ha fatto sapere di non essere coinvolto.

Gli autocarri spesso sono carichi di armi che i Pasdaran forniscono ai loro proxy regionali usando lo schermo del territorio siriano. Quell’area è particolarmente delicata, perché è lungo il cosiddetto “Corridoio dell’Eufrate” in cui si rintanavano i baghdadisti dello Stato islamico, ma anche perché è usata per facilitare traffici dall’Iraq alla Siria. Dal 2013 gli israeliani compiono regolarmente bombardamenti contro questi trasferimenti di armi, perché ritengono (a ragione) che prima o poi saranno usate contro lo Stato ebraico – visto che a essere rifornite dagli iraniani sono forze anti-semite e anti-occidentali come i libanesi di Hezbollah.

Cosa (non) c’entra la Russia

Il raid di questa notte arriva però in un momento più particolare degli altri. Ventiquattro ore prima alcune strutture militari iraniane, tra cui sicuramente una nella provincia di Isfahan, erano finite sotto un bombardamento con droni non identificati, potenzialmente provenienti anch’essi da Israele. Anche in questo caso, gli Stati Uniti si sono sganciati dalle responsabilità, con alcuni funzionari che hanno dichiarato che dietro a quell’operazione c’è il Mossad. Con una nota: l’attacco, dicono al New York Times gli americani, non è collegato alle vicende russe, piuttosto a preoccupazioni di sicurezza di Gerusalemme.

Questo ragionamento riguardo alla Russia è collegato alle forniture di armi – soprattutto droni, ma potenzialmente anche missili – che gli iraniani stanno fornendo a Mosca per aiutarla nell’invasione dell’Ucraina. Israele si è già innervosito per questi collegamenti. Che quello iraniano sia uno dei vari fronti della guerra di Vladimir Putin è possibile, anche se non ufficiale. Israele non può fornire armi a Kiev come fa il resto dell’Occidente, perché ha interesse a mantenere con il Cremlino un rapporto collaborativo: i russi controllano i cieli siriani, occupati dalle operazioni di sicurezza nazionale iraniana come quelle di Al Bukamal per esempio. Indispettire Mosca, che ha spesso chiuso un occhio sugli attacchi contro gli iraniani e i proxy in Siria (nonostante siano loro alleati), sarebbe contro gli interessi israeliani.

Tuttavia, è possibile che per essere della partita, il governo Netanyahu ordini certi tipi di attacchi. È un modo per proteggere un doppio interesse, quello proprio e quello dell’allineamento Usa, Ue, Nato. D’altronde, la copertura della guerra russa fornisce un ottimo alibi. Questo genere di attacchi potrebbe non essere troppo apprezzato da alcuni alleati israeliani, per esempio gli europei, se non fosse collegabile alla partita contro Putin. Soprattutto in un momento in cui Israele è sotto particolare attenzione per il ritorno violento della questione palestinese. Non è un caso che dagli Emirati Arabi Uniti si sia alzato un richiamo da parte di Anwar Gargash, super consigliere del presidente Mohammed bin Zayed, che suggerisce di valutare bene gli effetti di azioni come quelle in Iran, perché potrebbero creare destabilizzazione e complicare il rimodellamento di equilibri in corso (Emirati e Iran hanno trovato forme di dialogo pragmatico per superare le tensioni storiche).

La nuova strategia iraniana

Le attività israeliane all’interno dell’Iran, e contro l’Iran in altre parti del mondo, sono parte di un rinnovamento della strategia plasmata durante i governi di Naftali Bennet e Yair Lapid, che hanno preceduto l’attuale nuovo esecutivo di Benjamin Netanyahu. Lo Stato ebraico intende colpire direttamente in territorio iraniano per qualsiasi attacco contro israeliani o ebrei. Per esempio: quando Israele ha scoperto l’esistenza di un piano per assassinare o rapire cittadini ebrei a Cipro e in Turchia, il comandante del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie che ne era responsabile è stato eliminato a Teheran. Si chiamava Sayad Khodayari, era il comandante della Unit840, un’unità speciale delle Quds Force — la forza di élite dei Pasdaran – che avrebbe dovuto compiere quelle operazioni. È stato ammazzato il maggio scorso, mentre parcheggiava la sua auto sotto casa nel centro di Teheran.

Solo uno dei vari episodi. Nell’agosto 2019, Israele ha inviato un quadricottero esplosivo nel cuore di un quartiere di Beirut, in Libano, dominato da Hezbollah, per distruggere quelli che i funzionari israeliani hanno descritto come macchinari vitali per la produzione di missili di precisione. Nel giugno 2021, alcuni quadricotteri sono esplosi in uno dei principali centri di produzione iraniani di centrifughe per l’uranio atomico, nei due principali impianti di arricchimento dell’uranio del Paese, Fordow e Natanz. Un anno fa, altri sei quadricotteri hanno colpito a Kermanshah, il principale impianto di produzione e stoccaggio di droni militari dell’Iran. Nel maggio 2022, un attacco di droni ha preso di mira un sito militare altamente sensibile fuori Teheran, dove l’Iran sviluppa tecnologie missilistiche, nucleari e droni.

L’Operazione Polipo e il Jcpoa

Questo set di operazioni indica che la questione Russia è abbastanza marginale. Piuttosto Israele ha una necessità di proteggere i propri interessi. Farlo adesso diventa anche una dimostrazione di capacità. Questi attacchi aiutano infatti Israele a dimostrare simultaneamente che anche se le tensioni con i palestinesi stanno aumentando e c’è un vigoroso dibattito interno sulle riforme che il nuovo governo deve applicare, è in grado di proiettare il proprio potere militare all’interno di Iran tanto quanto sul confine siro-iracheno. La chiamano “Operazione Polipo”.

Secondo alcune informazioni riportate dai media, gli Stati Uniti hanno chiesto di essere informati prima di ogni operazione israeliana, ma Gerusalemme (già ai tempi del governo Bennett) aveva rifiutato sostenendo che ci sono azioni di cui Washington preferirebbe non essere a conoscenza. È effettivamente anche una necessità di carattere politico. Oggi, lunedì 30 gennaio, il segretario di Stato Antony Blinken, è in Israele – e poi Palestina. Ieri è uscita una sua intervista esclusiva su al Arabiya in cui sosteneva che gli Stati Uniti supportano le richieste del popolo iraniano, da mesi impegnato in scontri e manifestazioni contro la teocrazia, costantemente represse dal regime. Blinken ha anche detto che per Washington la porta del Jcpoa, l’accordo sul congelamento del programma nucleare iraniano, è ancora aperta. Perché “la diplomazia è sempre la strada migliore”, sebbene tutte le opzioni sono sul tavolo per impedire alla Repubblica islamica di ottenere l’arma atomica.

Nelle stesse ore, il ministro degli Esteri iraniano ha ospitato a Teheran l’omologo qatarino, che a quanto comunicato portava con sé un messaggio americano per ripristinare (per quanto possibile) il dialogo sul Jcpoa. Il capo della diplomazia di Teheran si è mostrato dialogante, ma non è chiaro quanto questa sia una reazione di facciata, mossa anche dal contesto. La reazione iraniana a questo genere di situazioni come gli attacchi subiti sarà probabilmente guidata da un doppio fattore: da un lato la narrazione (sia a scopo interno che di deterrenza), dall’altro il controllo dell’escalation.

Controllo, forza e resilienza

In quest’ottica, al di là che una eventuale rappresaglia sarà proporzionale all’effettivo danno subito, l’Iran intenderà mostrarsi forte ma anche in grado di gestire la situazione – con resilienza. Per tale ragione, non verranno probabilmente diffusi troppi dettagli dell’accaduto. D’altronde, da anni Teheran sta gestendo vari tipi di sabotaggi e su questo ha costruito una capacità di resilienza sia tecnico-logistica, che politica. Le aziende della difesa e le catene logistiche lavorano secondo un sistema diffuso, una forma di difesa passiva. L’obiettivo: colpire una parte non deve bloccare l’intera catena. Un attacco come quello dei giorni scorsi a Isfahan crea problemi di tempo – per recuperare le funzionalità operative – ma non blocca capacità e conoscenze.

Davanti a questa consapevolezza, non solo certe operazioni nel corso del tempo non hanno sensibilmente diminuito la forza dell’industria militare iraniana, e non hanno nemmeno avuto effetti sulle scelte di policy. I vari attacchi subiti tra la metà del 2020 il 2022 non hanno convinto Teheran su scelte diverse: la Repubblica islamica ha continuato a violare i dettami del Jcpoa e ad arricchire materiale nucleare. Contemporaneamente l’Iran ha sviluppato armi come i droni Shahed 136 poi forniti alla Russia, e continuato a passare rinforzi alle milizie sciite in giro per il Medio Oriente. Di questo, chi attacca ha ormai preso consapevolezza, ma non rinuncia per due ragioni: la prima è dimostrare di avere capacità di azione, la quale potrebbe essere anche su scala maggiore. La seconda è complicare la strada all’Iran nell’ottica del fare poco è meglio che non fare niente.

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