Intervista all’ex ministro della Salute, oggi senatrice dem. Il payback è un meccanismo superato e lesivo, oltre che delle aziende, anche del paziente, che si vede privato dell’innovazione. È arrivato il momento di ripensare modelli di spesa e programmazione, oltre a investire come si deve sul personale. Il punto di partenza è una spesa all’8-9% del Pil. Basta con la sanità frammentata tra regioni, la corsa alle autonomie non è la soluzione. Anzi…
C’è qualcosa che non va nel profondo della sanità italiana. E pensare che l’Italia passa per essere uno dei Paesi più virtuosi nel contesto europeo e, perché no, anche globale. Attenzione però a non vivere sugli allori, perché i problemi ci sono e si vedono anche. E così, nei giorni in cui il governo di Giorgia Meloni ha disinnescato, ma non risolto il problema alla radice, la mina del payback, chi la sanità la conosce bene non può non dare degli appunti, a futura memoria.
Beatrice Lorenzin è stata ministro della Salute per cinque anni, dal 2013 al 2018, con tre premier diversi: Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, per poi essere eletta senatrice per il Partito Democratico. E in questo colloquio con Formiche.net spiega quali sono i mali oscuri della sanità italiana. E come combatterli.
Senatrice Lorenzin, partiamo dalla questione del payback per le imprese che riforniscono la sanità di dispositivi medici. Il frontale con una spesa di oltre due miliardi è stato evitato. Per ora…
Diciamo subito una cosa, il payback, sia quello per i dispositivi sia di quello farmaceutico, è un meccanismo introdotto in un contesto di crisi. La ratio era il controllo della spesa in un momento in cui non era sostenibile, ma parliamo di una misura di contenimento poi diventata strutturale, una misura anacronistica pensata in un momento storico in cui l’innovazione non era paragonabile ad oggi e la medicina di precisione ancora un miraggio. Il payback è diventato una patologia e va superato con nuove soluzioni.
Le imprese, in effetti, hanno spesso attaccato la natura iniqua del payback.
Vero, perché un simile meccanismo è disincentivante per le aziende. Ma faccio anche notare che, per quanto riguarda le imprese dei dispositivi medici, alla fine ci rimette il paziente che non è al centro del sistema nell’accesso all’innovazione e ci rimette il sistema Italia meno attrattivo per gli investimenti nelle filiere dell’innovazione e delle scienze della vita, e ci rimettono anche le regioni sempre sotto finanziate rispetto alla crescente domanda sanitaria. Il payback è diventato negli anni un modo per recuperare risorse che dovrebbero essere invece finanziate dal fondo. Mi pare abbastanza per giustificare un intervento che modifichi o addirittura superi il payback.
Non per fare il guastafeste, ma le riforme costano. Idee?
Servono cinque miliardi di euro in più sul fondo sanitario complessivamente per rendere resiliente il SSN rispetto alle sfide in campo dal personale all’accesso alle terapie. Ma oltre ai fondi servono riforme per prevenzione, programmazione e ricerca, le risorse da sole non bastano. E quando parlo di interventi profondi, intendo un ripensamento della spesa sanitaria, nuovi modelli e anche un diverso rapporto con le regioni. Vede, la questione è delicata ma anche urgente, perché il rischio è che le imprese se ne vadano.
Torno un momento sul payback. La compensazione tra i tetti di spesa, convenzionata e diretta, può funzionare?
Lo proposi la prima volta nel 2017, ma è una soluzione tampone, ribadisco è ora d’immaginare un nuovo modello. Come ho poc’anzi detto, bisogna agire a monte, sulla spesa e la programmazione. O si cambia schema, oppure tutte le soluzioni più o meno buttate lì non danno certezza al regolatorio né a chi deve investire in Italia. Il problema è che la spesa è aumentata e alla fine questi aumenti si sono scaricati sul payback e dunque su imprese e pazienti. Noi dobbiamo attrarre imprese e stiamo facendo di tutto per non farlo.
Parliamo delle regioni. Spesso si parla di sanità frammentata, tanto quanto sono le singole regioni. E pensare che proprio in queste settimane si discute dentro e fuori il governo di autonomie, anche sanitarie. Lei che dice?
Dico che la proposta di Roberto Calderoli (per una maggiore autonomia, anche sanitaria, delle regioni, ndr) non è la risposta a nessuno dei problemi italiani, a cominciare da quelli non risolti dalla riforma del Titolo V. Credo sia solo ideologia, fumo, che non affronta i veri nodi.
Però una eccessiva frammentazione sanitaria c’è…
Altroché se c’è. Il sistema sanitario, è bene ricordarlo, è quasi totalmente in mano alle regioni. Anche quelli che dovevano essere organismi di controllo statali, sono stati svuotati, depauperati, anche lo stesso ministero della Salute. Quanti sono gli ispettori? Quale il ruolo delle agenzie? Quale il loro campo di azione? Questi sono i problemi da affrontare, perché c’è una fortissima diseguaglianza nella sanità, non solo tra nord e sud, ma tra centro e periferia.
E allora che fare?
Pensiamo al lungo periodo di austerity cominciato già nei primi anni del 2000 dove il turnover è stato bloccato, così come le borse di specializzazione. Tutto questo è diventato però strutturale, provocando un impoverimento generalizzato del servizio reso, a discapito della qualità del servizio stesso. Ora, dunque, dobbiamo ripartire da una nuova formazione e anche remunerazione del personale. Dobbiamo adeguare un sistema trasformato dal Covid e dalla digitalizzazione ma profondamente indebolito dalle scelte sopra menzionate.
Proviamo a scrivere una ricetta?
Puntare agli investimenti del Pnrr, pagare bene il personale sanitario, formarlo. Insomma, smetterla di perdere capitale umano. E per farlo, serve una spesa sanitaria al 7% del Pil, tendente all’8 o al 9 come negli altri Paesi. Ci mancano cinque miliardi, che possono essere la base di partenza. Guardiamo alle pieghe del bilancio statale, e vedrà che si troveranno. D’altronde, parliamoci chiaro, se crolla la sanità crolla il Paese.