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Senza un partito di sinistra sano, la destra potrà governare per anni

È necessaria una forza politica responsabile che abbia a cuore il bene comune e quello dei cittadini, guardando avanti senza cedere alle mode del momento. D’altronde nella sfida congressuale si può intravedere il tentativo da parte di molti non solo di ripristinare una certa distanza tra centro e sinistra, ma anche di spingere il partito oltre la tradizione popolare e liberal-democratica. Il punto di Giuseppe Fioroni, già ministro della Pubblica istruzione e vice presidente dell’Istituto Toniolo

Nell’opera che il Partito democratico dovrà fare per ritrovare la propria identità, la carta dei valori del partito rappresenta, e rappresentava già nel 2007, il punto di arrivo di un soggetto politico intenzionato a fare tesoro della tradizione e della storia di culture politiche come quelle cattolico- democratica e popolare, liberal-democratica, socialista, della sinistra riformista.

Partendo da queste radici, quella carta intendeva costruire una nuova identità e una nuova appartenenza, quella di un partito di centrosinistra che superava i limiti delle singole formazioni politiche. Oggi bisogna prendere atto che occorre tornare alle idee di quel Pd, per evitare che un processo di lenta e inesorabile erosione cancelli gli stessi presupposti dell’esperienza fin qui portata avanti.

Se il dibattito congressuale, con una certa superficialità e, non lo si può negare, cavalcando l’onda degli umori e della pancia del Paese, determina l’ulteriore sfibramento della proposta riformista, ora per difetto e ora per eccesso, è fatale che la base del partito ne risulti sconcertata. Oggi, serve una forza politica responsabile che abbia a cuore il bene comune e quello dei cittadini, guardando avanti senza cedere alle mode del momento.

Occorre semmai che la carta dei valori venga attualizzata per immaginare la piena realizzazione di un soggetto politico che, fino ad oggi, non è riuscito ad arrivare al risultato che si era posto. D’altronde nella sfida congressuale si può intravedere il tentativo da parte di molti, non solo di ripristinare una certa distanza tra centro e sinistra, ma anche di spingere il partito oltre la tradizione popolare e liberal-democratica, nella convinzione che i temi e i valori prospettati da queste culture non siano più di interesse per gli elettori (sempre meno numerosi) del Pd.

Quasi a sostenere che la rappresentanza di questi mondi debba oggi essere affidata in esclusiva a Calenda, Renzi e alla destra. Questo è un grave errore che ricade sulle spalle dell’intero gruppo dirigente, senza escludere la parte di matrice popolare. È chiaro ed evidente che in alcune delle posizioni più dure di questo dibattito interno che vi sia la malcelata intenzione di accompagnare alla porta quelle componenti politiche ritenute oggi meno attuali e di far sentire sempre più “ospiti sgraditi” alcuni dei mondi che compongono la realtà del partito.

Il congresso, invece, dovrebbe registrare l’ambizione di chi ha fondato il Pd a rilanciare il progetto delle origini. I popolari e i cattolici di sinistra non sono il fantasma di un’appartenenza che non c’è più, ma sono la linfa vitale del partito e la sua vera potenzialità di crescita. Quando fu votata l’adesione al gruppo dei socialisti nel Parlamento europeo, il segno più evidente è stato quello di una mortificazione delle sensibilità e dei valori appartenenti alla tradizione del popolarismo.

Gerardo Bianco, scomparso recentemente, aveva lucidamente inquadrato la questione: se nessuno poteva avere la pretesa di “morire democristiano”, allo stesso modo nessun altro poteva averla nel farci “morire social-democratici”. Questo ragionamento illuminava allora, e ci spiega anche adesso il motivo delle incomprensioni odierne.

Sul piano personale nutro ancora fiducia che vi possa essere una correzione di linea, per garantire un profilo accogliente di partito, senza provare a snaturare in senso “radicale” la fisionomia propria di un soggetto che nasce piuttosto con la vocazione a unire sotto un unico tetto i riformisti. Tuttavia, sono anche onesto nel riconoscere che i dubbi e le perplessità mettono a rischio la speranza di proseguire, con il dovuto entusiasmo, sulla strada imboccata non senza coraggio nel 2007.

Insisto su un punto decisivo. Il Pd doveva essere una casa in cui ciascuno era utile al Paese e alla sua parte politica, avendo comunque la possibilità di esprimere i propri convincimenti, i propri valori, le proprie proposte, per trovare infine una sintesi comune. Il Pd in questo senso ha necessità di una scossa, sebbene di una scossa ben diversa da quella immaginata dai patrocinatori di un certo “modello radicale”, forgiato all’idea di un’errata semplificazione.

Non è un problema di partito “leggero” o “pesante” ma di dialogo, di confronto e di condivisione. Questo è ciò che progressivamente si è smarrito nel vissuto politico quotidiano. A me preoccupa che il prezzo maggiore di questo decadimento sia stato pagato dai cattolici democratici (a prescindere dalle gratificazioni individuali). Si avverte infatti l’usura di una storia, dal momento che le sue dinamiche ideali e politiche sono state contratte fino all’immobilità.

Rimane in piedi soltanto la cura delle ricorrenze più importanti, specie riguardo la memoria di figure eminenti come Sturzo, De Gasperi e Moro. Nell’aria si coglie una nuova aspettativa. Può farcela il Pd, con il peso di contraddizioni mai risolte, a interpretarla adeguatamente? Questa è la domanda più appropriata, dentro la quale si nasconde il dilemma del congresso.

Senza un colpo d’ala il riformismo democratico, anche di matrice cristiana, va incontro al suo collasso. È non è difficile indovinarne le conseguenze, poiché avremmo di fronte la prospettiva di una destra in grado di governare molto a lungo, in assenza di un’alternativa credibile ed efficace.

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Questo articolo è stato pubblicato sul numero di gennaio 2023 della rivista Formiche


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