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Sul fisco la missione (non) è impossibile. L’analisi di Nicola Rossi

Intervista all’economista ed ex parlamentare dem. Il riassetto degli scaglioni Irpef caldeggiato dall’esecutivo è la scelta più sensata, ma per una vera riforma serve agire sulla spesa, andando ben oltre gli obiettivi fissati nel Def. Meloni e Giorgetti hanno una grande occasione, non la sprechino

Puntuale come un orologio svizzero, tra una manovra e l’altra si torna a parlare di riforma fiscale. Ora che il vento dei mercati soffia in poppa al governo e il debito costa un po’ meno, per Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti è tempo di riprendere in mano la madre di tutti gli interventi, il riassetto tributario.

Sempre seguendo, lo stesso ministro dell’Economia lo ha ribadito in mattinata, intervenendo a Telefisco 2023, il mantra della prudenza e della gestione responsabile delle finanze. Il baricentro è sempre la razionalizzazione degli scaglioni Irpef, che l’esecutivo punta a portare a tre, dagli attuali quattro. Il piede è quello giusto? E i soldi che eventualmente Palazzo Chigi e Tesoro accantoneranno basteranno? Domande direttamente girate a Nicola Rossi, economista e grande esperto di fisco e dintorni, già al vertice dell’Istituto Bruno Leoni e con un passato da parlamentare dem.

Il governo ha ripreso in mano la riforma del fisco, più volte invocata ma mai, almeno in questi ultimi anni, davvero attuata. A sentire il viceministro dell’Economia, Maurizio Leo, si parte dal riassetto degli scaglioni Irpef, che scenderanno da quattro a tre. Le pare un buon modo per aprire il dossier?

Mi sembra del tutto sensato che si parta dall’Irpef che è l’imposta, in questo momento, più bisognosa di un intervento significativo avendo, per un verso, ormai perso quello che era il suo senso originario ma, al tempo stesso, non avendo acquistato una nuova e compiuta identità. Sotto questo profilo una riduzione degli scaglioni sarebbe un passo importante che andrebbe associato ad un deciso sfoltimento della congerie di deduzioni e detrazioni che contribuiscono a rendere l’Irpef indecifrabile, personalizzandola nel senso deteriore del termine.

Rimaniamo nel solco del riassetto fiscale. Un’altra indicazione del governo riguarda la riforma del catasto, con gli aggiornamenti degli estimi. Qui l’esecutivo sembra volersela prendere con grande calma. Condivide?

Che il catasto debba, prima o poi, avere una qualche relazione con la realtà dei mercati immobiliari mi sembra inevitabile (e auspicabile). Che il processo debba essere graduale mi sembra altrettanto inevitabile stante l’attuale configurazione del sistema fiscale. Io penso però che si debba riflettere sulla utilità di una tassazione ordinaria del patrimonio come quella attuale.

Che cosa vuole dire?

Continuo a pensare che laddove sia possibile tassare i flussi, piuttosto che gli stock, sia preferibile e più equo. Veniamo da dieci anni di tassi prossimi allo zero e andiamo verso un biennio, almeno, di rendimenti reali negativi. In queste condizioni, la tassazione degli stock può essere punitiva oltre ogni dire.

Ancora oggi c’è chi accusa il governo di aver fatto solo gli interessi dei lavoratori autonomi, con la flat tax al 15%, mentre i dipendenti scontano un’imposizione molto più alta. Non le pare uno squilibrio eccessivo? 

Mi sembra molto difficile negare il fatto che l’aliquota del 15% su alcuni redditi da lavoro autonomo introduca una qualche sperequazione fra tipologie di contribuenti. Certo, è probabile che, tenendo conto di tutti gli elementi, questa sia inferiore a quanto si pensa ma è difficile che si annulli. Ma credo che l’argomento di fondo vada rovesciato.

In che modo?

I lavoratori dipendenti e pensionati dovrebbero godere dello stesso trattamento a parità di condizioni, oggi riservato ad alcuni autonomi. Il che suggerisce, fra l’altro, che il possibile passo verso una riduzione del numero degli scaglioni debba essere seguito da iniziative ulteriori nella stessa direzione. E, contestualmente, suggerisce che l’aliquota del 15% andrà, prima o poi, rivista al rialzo.

Rossi, qualunque riforma si abbia in mente, bisogna fare i conti con l’oste. Ovvero, servono i soldi. L’Italia, a guardare lo spread, sembra cominciare a risparmiare qualcosa in termini di costo del debito. Ma dove prendere le altre, necessarie, risorse con cui finanziare una riforma degna di questo nome?

Certo non a debito. Il che implica che si debba tornare a parlare di spending review.

Entriamo su un terreno scivoloso…

A questo proposito mi limito a segnalare che il Pnrr prevedeva che il Documento di economia e finanza indicasse gli obbiettivi di risparmio conseguenti al processo di revisione della spesa per il triennio 2023-2025. Cosa che è puntualmente accaduta ed è stata poi ribadita nella legge di bilancio da poco approvata: 0,8 miliardi di euro nel 2023, 1,3 nel 2024 e 1,5 nel 2025. Una goccia – una piccolissima goccia – nel mare della spesa pubblica italiana che si prevede possa superare nel 2023 gli 870 miliardi di euro (715 al netto degli interessi). Da qui un modesto suggerimento al presidente del Consiglio ed al ministro dell’Economia.

Vada.

Se l’obbiettivo è quello di una vera riforma fiscale accompagnata da una riduzione, percepibile, della pressione fiscale, è al processo di revisione della spesa – alle sue procedure, ai suoi obbiettivi, ai suoi risultati – che bisogna guardare e senza indugio. Anche per trasmettere fin da ora un messaggio chiaro ai vertici politici delle diverse Amministrazioni. Un messaggio che possa tradursi, in primavera, in obbiettivi di dimensioni non risibili come è accaduto fino ad ora. L’alternativa è molto semplice.

Ovvero?

Riprendere l’indicazione implicita nella proposta di riforma del sistema fiscale avanzata dal precedente governo e cioè l’ipotesi di una riforma a costo zero, poggiata su spostamenti del carico fiscale fra le diverse voci di entrata a pressione fiscale invariata. Una dichiarazione di impotenza inevitabile, forse, per la precedente maggioranza ma che per l’attuale potrebbe essere esiziale.



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