La scoperta del sito minerario ha giustamente avuto grande risonanza, soprattutto per le forniture di materie prime critiche per le ambizioni climatiche e l’autonomia tecnologica dell’Europa. Ma non si tratta di un game changer. Bisogna tenere conto del funzionamento del mercato e della supply chain, attualmente concentrata in Cina. Serviranno anni, il giusto contesto normativo e lo sviluppo del settore a valle per diventare la miniera europea per il Green Deal…
La notizia della scoperta del più grande deposito di “terre rare” (rare earth elements) in Svezia, nell’area Kiruna, da parte della società svedese, controllata dallo Stato, Lkab, ha giustamente avuto la sua centralità nella giornata di ieri. La possibilità di sfruttare un giacimento continentale, dopo decenni di offshoring delle attività minerarie e nel bel mezzo della duplice transizione green-tech, rappresenta un importante segnale per l’intero comparto industriale europeo e che segue quanto annunciato in Sardegna e Turchia, in Francia per il litio.
È altresì curioso che la scoperta avvenga proprio nello Stato scandinavo, dove nel 1787 il chimico svedese Carl Axel Arrhenius scoprì, nei pressi della località di Ytterby, non lontana da Stoccolma, una roccia scura e pesante, a cui diede il nome di ‘ytterbite’. Da lì seguirono altre scoperte che fecero presumere l’esistenza di un nuovo metallo, che si suppose essere più “raro” di altri elementi della tavola periodica. Quello che sappiamo oggi, è che la famiglia dei lantanidi i 17 elementi della tavola periodica, sono discretamente diffusi tra i giacimenti mineralogici conosciuti sulla crosta terrestre (più di 200), ma in concentrazioni differenti e limitate che rendono l’estrazione assai complicata.
Si tratta, come dichiarato dal ceo di Lkab, Jan Monstrom, del sito più promettente “nella nostra parte del mondo” e che potrebbe diventare decisivo per il Green New Deal. “Senza miniere, non ci possono essere veicoli elettrici”, ha chiosato. In Europa, infatti, non esistono miniere attive di terre rare e gran parte delle operazioni avvengono nella Repubblica Popolare cinese (58-60%), negli Stati Uniti (16%), in Australia (12%) e in Myanmar.
I giacimenti ospitanti più diffusi sono la monazite, la bastnasite, le argille ioniche e lo xenotime. Generalmente, questi minerali rappresentano soltanto il 10% del tonnellaggio del sito geologico e una percentuale di terre rare sfruttabili (Treo) che oscilla tra il 20 e il 60%.
Secondo le stime preliminari di Lkab, il sito di Kiruna è costituito principalmente da un minerale, la monazite, incluso in un giacimento di apatite che include anche ferro. Per quanto riguarda i Ree, il giacimento conterrebbe una concentrazione di ossidi di terre rare (Reo) pari a 1 milione di tonnellate. La coesistenza dei due minerali potrebbe facilitare le operazioni, dal momento che il concentrato di terre rare potrebbe essere estratto come sottoprodotto, favorendone l’economicità dell’estrazione.
Nel caso di Kiruna, le risorse individuate potrebbero essere sufficienti a coprire una buona parte della richiesta europea. Secondo le stime della Commissione, entro il 2030 la domanda di terre rare del continente potrebbe aumentare di cinque volte, mentre l’European Raw Materials Alliance (Erma) si è posta l’obiettivo nel 2021 di produrre sul continente 7.000 tonnellate di magneti permanenti per l’industria (principalmente automobilistica ed eolica). Attualmente l’Ue ne importa dalla sola Cina circa 16.000 tonnellate. Una cifra che potrà solo aumentare in assenza di una produzione domestica che sia competitiva con le aziende cinesi.
Quello che non è ancora stato chiarito dalla società svedese, e che rimane probabilmente un’informazione sensibile, è la ratio di terre rare magnetiche (neodimio, praseodimio, disprosio e terbio) potenzialmente sfruttabili. E questa sarà la vera determinante per poter stabilire se il sito è, a livello mineralogico, allineato alle richieste del mercato ed economicamente sostenibile. Circa un terzo di questa tipologia di terre rare – Nd, Pr (leggere), Dy, Tb (pesanti) – viene utilizzato annualmente per la produzione di magneti permanenti per i motori elettrici (come quelli utilizzati da Volkswagen e General Motors) e le turbine eoliche dei parchi offshore (Siemens Gamesa, Vestas). Le restanti e più comuni terre rare, come cerio e lantanio, costituiscono solitamente più del 70% del concentrato estratto e sono in eccesso di produzione.
Gli ossidi di terre rare vengono tuttavia prodotti soltanto dopo aver estratto il concentrato di terre rare dal sito, e attualmente questa tipologia di operazione viene fatta quasi esclusivamente in Cina, che controlla la quasi totalità delle attività di separazione, raffinazione (Reo) e trasformazione delle terre rare in metalli (Rem) con circa il 90% del mercato. Una quota strategica, che mette Pechino nella posizione di essere l’unico mercato di sbocco per tutte le attività minerarie (chi estrarrebbe senza aver individuato un partner commerciale?) di questo segmento e così di rafforzare le sue attività di creazione di valore nelle industrie a valle, a partire dalla produzione di magneti permanenti (92%).
Questo monopsonio di fatto permette alla Cina di avere un saldo controllo dei prezzi, grazie a meccanismi diretti sul controllo della produzione e indiretti sulle esportazioni, favorendo le sue industrie tecnologiche. Dopo la crisi delle terre rare del 2010, tra Tokyo e Pechino con il blocco delle esportazioni, gran parte delle attività esplorative e di estrazione che seguirono fallirono nel giro di pochi anni quando il WTO obbligò la Cina a sospendere l’embargo. I prezzi crollarono, e così le ambizioni occidentali di affrancamento.
È in questo senso che l’approccio alla supply chain deve essere sistemico, così come la risposta dell’Unione europea. Senza mercati di sbocco sul continente, il destino economico di nuove miniere sarebbe legato indissolubilmente a quello cinese: come unica alternativa commerciale (è il caso della miniera di Mountain Pass, controllata da MP Materials, che spedisce i concentrati di terre rare in Cina), o come deus ex machina per i prezzi. Allo stato attuale, solo l’australiana Lynas Corporation estrae e processa terre rare nei suoi impianti industriali in Australia e Myanmar.
In questa direzione, sembra molto promettente la partnership siglata da Lkab con Reetec AS, nel novembre del 2022 in seguito all’acquisizione da 40.3 milioni di dollari. Non è un caso che sia avvenuta prima dell’annuncio alla stampa del deposito. La compagnia norvegese ha sviluppato una tecnologia sostenibile e innovativa nella separazione delle terre rare, passaggio cruciale per una reale diversificazione delle forniture dalla Cina. L’impianto, a Heroya, potrebbe essere operativo dal 2024, un secondo nel 2026 e iniziare le prime fasi di test dai materiali provenienti dalla società minerarie svedese.
Restano comunque alcune criticità nel contesto delle forniture europee. Come sottolineato dal ceo di Lkab, allo stato attuale dell’iter per l’avvio delle fasi successive, in osservanza di tutte le normative ambientali, fino al rilascio della concessione per lo sfruttamento del sito, potrebbero volerci dai 10 ai 15 anni prima che la società possa portare sul mercato le risorse. Un termine che la società ha voluto enfatizzare, perché mancano ancora ulteriori studi di fattibilità tecnica ed economica che possano comprovarne lo sfruttamento come business profittevole.
Una finestra temporale molto, troppo ampia per poter guardare alla scoperta da un punto di vista della sicurezza delle forniture dell’Ue, soprattutto in un contesto geopolitico sempre più volatile. La stessa Cina riconosce sempre di più come le tensioni internazionali stiano influenzando l’approccio di Pechino alla politica mineraria e di approvvigionamenti di metalli. Secondo una fonte interna ripresa dal South China Morning Post, quasi due terzi provengono da fonti esterne e questo avrebbe profonde implicazioni sul posizionamento globale del paese. È lecito aspettarsi, dunque, una maggiore assertività nel prossimo futuro.
Nel caso delle terre rare, tuttavia, è alquanto improbabile che il governo cinese possa considerarle come “arma economica” da utilizzare in un confronto aperto con gli Stati Uniti, o l’Ue, nel contesto della guerra tecnologica sui chip. La dipendenza upstream sui concentrati e ossidi è risibile se confrontata con l’importazione di magneti, sui cui si regge la vera posta in gioco tecnologica per l’automotive, l’eolico e anche l’industria della difesa.
In conclusione, l’annuncio è sicuramente una buona notizia per raffreddare le aspettative del mercato, con una probabile risalita dei prezzi nel breve-medio periodo. Secondo le stime di Adamas Intelligence, dal 2022 al 2035 la domanda globale di magneti permanenti crescerà ad un ritmo del 8.6%, traducibile con una crescita della richiesta di terre rare abilitanti la cui disponibilità, tuttavia, non è scontata. Per l’Ue, si tratta di un segnale che il momento è finalmente maturo per nuovi investimenti nel settore minerario, soprattutto per i materiali più critici per gli obiettivi industriali ed energetici. I rischi geopolitici hanno sicuramente spinto in questa direzione, ma serve un approccio alla sicurezza che guardi le criticità di imprese e Paesi da una prospettiva integrata, lungo tutta la supply chain. Un aspetto che il prossimo EU CRMs Act dovrà necessariamente affrontare.