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Che succede se Pechino mette un freno all’export di terre rare

Le autorità governative cinesi hanno annunciato una revisione di una lista di tecnologie e materiali soggetti a restrizioni e proibizioni commerciali. Si tratta di una mossa che rafforza la presa di Pechino lungo la supply chain delle terre rare. E che evidenzia, ancora di più, il rischio di weaponization di materie prime e filiere “green” in risposta alle mosse americane sui semiconduttori

Il ministero del Commercio della Repubblica Popolare cinese ha rilasciano una nota circa la revisione del Catalogue of Technologies Prohibited or Restricted from Export in China il 30 gennaio scorso. Una notizia passata inosservata, ma dal forte significato simbolico e soprattutto geopolitico. 

La revisione è volta a rafforzare la gestione strategica di importazioni ed esportazioni, in accordo con la Foreign Trade Law e i regolamenti sulla condivisione di tecnologie ritenute critiche per la sicurezza e gli interessi di Pechino. Il nuovo catalogo, aggiornato con la cancellazione di 32 voci, la modifica di 36 e l’inclusione di altre 7, creerà le basi giuridiche per una stretta alla cooperazione tecnologica con i partner commerciali, su tutti gli Stati Uniti. 

Tra le voci, elencate sul sito del ministero del Commercio cinese, su cui verterà una totale proibizione alle esportazioni, risultano importanti tecnologie per la produzione e l’estrazione di terre rare, per la rifinitura dei materiali in metalli e leghe, la preparazione di magneti al samario-cobalto e al neodimio (sostanzialmente, due prodotti che attualmente rappresentano circa la maggior parte del mercato dei magneti). In breve, gran parte del know-how produttivo per trasformare le terre rare da materiali grezzi in valore aggiunto. Una mossa che consolida ulteriormente la presa della Cina sull’importante filiera, dal momento che terre rare e magneti sono cruciali per motori elettrici (EV) e turbine eoliche offshore, oltre all’elettronica di consumo. 

La proposta, resa pubblica e chiusa a fine gennaio, diventerà presto legge e dunque segnerà un altro deciso passo di Pechino per la protezione dei suoi asset strategici. La dipendenza da Pechino, infatti, in particolare per i prodotti industriali a più alto contenuto tecnologico (come i magneti), è particolarmente pronunciata per l’Unione Europea e gli Stati Uniti. Questo alla luce del fatto che le struttura oligopolistica dell’industria delle terre rare in Cina, insieme al sistema di quote di produzione, favorisce l’esportazione di dispositivi high-tech a discapito dell’export di terre rare strategiche, come neodimio, praseodimio, disprosio e terbio. Il ministry of Industry and Information Technology (MIIT) ha inoltre annunciato che la stabilità dei prezzi per le materie prime sarà prioritaria nel contesto della rapida scalata dell’industria dei veicoli elettrici: dunque, una minor volatilità dei prezzi sarà un fattore chiave per la sostenibilità finanziaria dei progetti minerari e industriali oltreoceano, che guardano alla Cina come benchmark.  

Gli sforzi messi in atto da Usa e Ue per affrancarsi da questa dipendenza – a partire dal revival di attività di estrazione e soprattutto raffinazione – vedono una serie di progetti di piccola scala ora in fase di sviluppo, come MP Materials e USA Rare Earth nel Nord America, affiancati a realtà industriali più avanzate, come la tedesca Vacuumschmelze, azienda produttrice di magneti con impianti anche in Cina, in partnership con l’americana General Motors. Al di fuori della filiera controllata dalla Cina, Lynas Corporation rimane l’unica azienda mineraria con una capacità di raffinazione (in Malesia) integrata alle attività minerarie che conduce in Australia occidentale, nel sito di Mountain Weld. La canadese Neo Performance Materials, invece, si colloca a valle della filiera, producendo metalli di terre rare dal sito di trasformazione di proprietà, in Estonia, a partire dalle forniture della materia prima dagli Usa, grazie alla partnership con Energy Fuels.  

Ma è appunto la scala industriale necessaria per incontrare la crescente domanda (in particolare da EV e settore eolico) con la produzione interna che rimane un vulnus tra ambizioni politiche e realtà. Secondo le più recenti stime di Adamas Intelligence, nel solo 2022 il mercato di terre rare ‘magnetiche’ valeva 3.8 miliardi di dollari. Con la progressiva elettrificazione della flotta automotive e l’installazione di turbine offshore, il valore di consumo (50% per gli EV, 25% circa per le turbine) crescerà di dieci volte, con un ritmo del 19% entro il 2035. Senza capacità di raffinazione in scala, è molto probabile che gran parte di questo valore aggiunto verrà realizzato in Cina che possiede attualmente più del 90% del mercato dei magneti. 

Solo nel 2022, quasi il 45% dell’export cinese era diretto verso l’Ue, che dipende dalla Cina per le importazioni per la maggior parte dei volumi. Se l’obiettivo politico è quello di affrancarsi da questa dipendenza, una maggior produzione europea di magneti indurrà un aumento tra le 7 e le 26 volte l’attuale consumo di terre rare per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione al 2050. 

Consumo che potrà essere soddisfatto, in linea con le direttive europee sulla sostenibilità, da una maggiore estrazione domestica che tuttavia presenta le sue criticità. La prossima presentazione dello European Critical Raw Materials Act verterà proprio sulla necessità di agevolare queste attività, insieme ad accordi e partenariati strategici con i paesi ricchi di risorse. Le tecnologie e i processi di estrazione e lavorazione delle terre rare sono ormai abbastanza conosciuti e diffusi, seppur via sia un solido presidio di licenze cinesi nel settore. 

È probabile, dunque, che le restrizioni imposte da Pechino non vadano a colpire direttamente i progetti in rampa di lancio, ma è possibile che una cooperazione con le industrie cinesi diventerà sempre più limitata in questo nuovo clima geopolitico. Uno scenario che rende necessari (e comunque complessi) gli sforzi per la diversificazione. Lo ha rimarcato, di recente, anche il consigliere del Presidente Joe Biden, Amos Hochstein, in un’intervista alla Cnbc. “È una seria preoccupazione per gli Stati Uniti e il resto del mondo. Mentre ci dirigiamo verso un nuovo sistema energetico pulito, dobbiamo assicurarci di avere una supply chain diversificata”. 

La mossa della Cina, passata inosservata, potrebbe essere la seconda risposta, dopo le restrizioni all’export di tecnologia per la produzione di pannelli solari, all’’offensiva americana sui chip sulla tecnologia per la produzione di semiconduttori. Un chiaro segnale di come la crescente rivalità geopolitica tra le due superpotenze possa avere importanti effetti sulla tenuta delle supply chain legate alle rinnovabili.


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