L’export control sui microchip fa male a Pechino, ma occhio alla ritorsione sul campo delle tecnologie verdi. Passeranno decenni prima che le supply chain occidentali diventino resilienti, una finestra in cui i Paesi like-minded dovranno cooperare. Il direttore del Programma di tecnologia e sicurezza nazionale del Center for a New American Security fotografa le direttrici del confronto
C’è il profilo della Cina dietro alle più grandi sfide per il mondo democratico. La saga del pallone aerostatico ha causato nuove tensioni tra Pechino e Washington, complicando la potenziale distensione. Ma le partite cruciali sono di più lungo respiro, sistemiche: transizione energetica e trasformazione industriale in chiave green, corsa allo sviluppo tecnologico e battaglie lungo la filiera dei semiconduttori, dell’infosfera digitale (vedi TikTok), delle biotecnologie. Formiche.net ha raggiunto Martijn Rasser, senior fellow e direttore del Programma di tecnologia e sicurezza nazionale del Center for a New American Security (Cnas), per sciogliere la matassa.
Come commenta l’episodio del pallone spia cinese negli Stati Uniti?
Mi sembra che Pechino abbia commesso un grave errore di calcolo continuando quella missione, qualunque essa fosse; non mi è chiaro quale sarebbe stato il guadagno rispetto all’ottenere informazioni dai satelliti spia e altri mezzi. Il caso potrebbe indicare una mancanza di coordinamento all’interno del regime. Magari un elemento del governo ha proceduto con quella missione senza passare attraverso l’equivalente del loro processo di confronto tra le agenzie governative. Ci sono molte domande, le risposte non saranno evidenti per un po’ di tempo, ma è chiaro che l’episodio abbia irrigidito la percezione di molti americani riguardo a Pechino, ancora di più di quanto non lo fosse già. Non è certo il risultato che Xi Jinping stava cercando.
Come anche i controlli sulle esportazioni nell’ambito dei microchip, con cui Washington vuole ostacolare lo sviluppo tecnologico e industriale di Pechino. Crede che queste misure siano efficaci?
La notizia del fatto che anche Paesi Bassi e Giappone stiano istituendo una qualche forma di export control sulle apparecchiature per fabbricare semiconduttori è uno sviluppo molto importante. La Cina è molto preoccupata; ci sono registrazioni di inviati cinesi che contattano le controparti in altri Paesi per questo motivo, a riprova del fatto che tema seriamente la morsa degli Stati Uniti. Questi controlli sulle esportazioni avranno un impatto molto forte sulla sua capacità di creare un’industria dei chip avanzata e competitiva; è un duro colpo per le ambizioni tecnologiche cinesi. A proposito: se nel relitto del pallone spia verranno trovate componenti statunitensi, certamente a Washington aumenteranno le richieste di ulteriori controlli sulle esportazioni contro la Cina.
Che opzioni rimangono a Pechino? E quanto è realistica quella di puntare su Risc-V, l’architettura open-source di progettazione dei microchip?
Certamente la Cina è ben posizionata per diventare un attore significativo nei cosiddetti legacy chips, i semiconduttori più obsoleti, per i quali Risc-V potrebbe essere un fattore importante. Nel complesso, però, si gioca tutto sulla (mancata) capacità cinese di padroneggiare FinFET, il metodo di progettazione 3D per i chip più avanzati. Questo è il principale ostacolo al loro sviluppo, ed è qui che l’amministrazione Biden è andata a intervenire. Per Pechino sarà difficile superare questo muro a causa dei controlli sulle esportazioni e del fatto che i cittadini americani non possano contribuire allo sviluppo dell’industria dei microchip cinese. Inoltre, guardando avanti, già si pensa a potenziali restrizioni sugli investimenti in uscita che limiteranno ulteriormente la capacità di sviluppo della Cina.
Alla luce della crescente assertività statunitense, come giudica la mossa cinese di inserire diverse componenti-chiave dei pannelli solari nella “lista nera” delle esportazioni?
È sicuramente uno strumento di cui Pechino si è dotata per rispondere ai controlli sulle esportazioni tech. Limitare l’export di queste componenti sarebbe un’azione a breve termine attraverso la quale la Cina può avere un impatto considerevole. E lo stesso vale per le terre rare, i metalli critici e i prodotti di tutto lo spettro della tecnologia verde, su cui Pechino esercita un potere considerevole. Allo stesso tempo, è anche una vulnerabilità riconosciuta dai responsabili politici di Stati Uniti, Europa, Giappone, Corea del Sud e altri Paesi. Sono già in corso una serie di azioni intraprese per mitigare il potenziale effetto delle scelte cinesi.
Qual è il timore di fondo in Occidente?
Pechino potrebbe davvero limitare la capacità occidentale di sviluppare un segmento molto importante dell’economia moderna dal punto di vista strategico, la filiera green tech. Per la Cina, il risultato ideale sarebbe creare una dipendenza dagli input cinesi lungo la catena del valore dell’energia pulita, proprio come ha fatto la Russia con il petrolio e il gas. Con la differenza che la morsa cinese sarebbe più ampia e di maggiore impatto rispetto a quella russa, per via della posizione dominante della Cina nel comparto dei materiali critici per le tecnologie verdi.
Intanto Stati Uniti ed Europa (e anche le capitali europee tra di loro) battibeccano sui sussidi alle industrie green tech. Come pensa che evolverà la diatriba legata all’Inflation Reduction Act?
Credo che alla fine prevarrà il pragmatismo. Ci sono certamente divergenze su una serie di questioni di politica industriale e tecnologica, ma c’è ampia sovrapposizione tra i problemi di Usa e Ue in questo settore. Prevedo che Washington, Bruxelles e le singole capitali europee collaboreranno per affrontare questo problema, attraverso progetti come lo sfruttamento dei nuovi giacimenti svedesi di terre rare e in sintonia con altri alleati, come il Giappone e l’Australia. Ci sono segnali che indicano come i singoli Paesi si stanno muovendo verso soluzioni pragmatiche. Con le nuove capacità di estrazione e lavorazione, inizieremo a vedere uno slancio positivo in questa direzione. Tra oggi e allora ci sarà una finestra, in cui gli alleati democratici saranno impegnati a costruire alternative, e in questo lasso di tempo saranno esposti a Pechino. Probabilmente passerà un decennio o due prima che la resilienza sia integrata nella catena di approvvigionamento globale.
Sul versante digitale, gli Usa stanno aumentando la pressione anche su TikTok, l’app di social media cinese. In Europa le posizioni sono molto più rilassate. Perché?
È tutta una questione di tolleranza al rischio. Resta da vedere quale sarà l’esito degli sforzi Usa; molti membri del Congresso sono ansiosi di attuare un divieto, ma personalmente ritengo che il disinvestimento sia una strada più ragionevole. Per quanto riguarda la posizione prevalente nell’Ue, dico che anche in questo caso non confido nell’abilità di alcun governo nel mitigare questo tipo di minacce. In definitiva, stiamo parlando della capacità del Partito comunista cinese di influenzare l’opinione pubblica attraverso la propaganda, amplificando alcuni messaggi, censurandone altri e diffondendo disinformazione. ByteDance e TikTok stanno facendo molto per proiettare una parvenza di trasparenza nelle loro operazioni, ma la realtà è che si tratta di algoritmi-scatola nera; è effettivamente impossibile per terzi capire cosa stiano realmente facendo, che scelte facciano riguardo alla visibilità dei contenuti. Tutto ciò mi ricorda i Centri per la trasparenza istituiti da Huawei, che non sono andati benissimo, anzi hanno fatto risaltare la gravità dei problemi di fiducia. Non vedo come possa essere molto diverso per TikTok.
Il suo think tank si sta muovendo nell’ambito delle biotecnologie. Ci racconta come mai?
La biotecnologia ha il potenziale per essere una forza incredibilmente trasformativa per l’economia e le società globali; saperla sfruttare è la modalità per trarne il massimo beneficio, affrontando al contempo il rischio potenziale di uso improprio, che sarà una grande sfida dei prossimi decenni. Abbiamo istituito una task force per aiutare i responsabili politici a comprendere rischi e opportunità. Vogliamo proporre raccomandazioni politiche attuabili per aiutare i nostri leader a orientarsi in un futuro tanto emozionante quanto rischioso. Vedo molte opportunità di cooperazione internazionale; la relazione transatlantica è molto ben impostata per una collaborazione positiva e può generare enormi opportunità per coinvolgere i Paesi di tutto il mondo che condividono la stessa mentalità (like-minded, ndr) al fine di costruire un futuro sicuro e prospero.
Immagine: Cda Institute