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​Il Dragone non fa più figli. Ma non è (ancora) un problema

La crisi demografica cinese è ormai conclamata, eppure il suo impatto sull’industria e la crescita potrebbe essere limitato, grazie all’enorme forza lavoro ancora residente nelle campagne. In compenso, la mina bancaria spaventa di più

Anche in Cina è ormai emersa la questione della natalità, come nelle economie occidentali più avanzate. Nell’anno in cui l’India ospita il G20 e supera il numero di abitanti del Dragone, la paura è che meno abitanti giovani vorrà dire meno manodopera per la manifattura. Che invece, alla luce di un Pil previsto al 5% nel 2023, sotto le attese degli analisti, deve aumentare per recuperare il gap. Ma la Cina e la sua forza lavoro non sono ancora un problema irrisolvibile.

Almeno secondo Elbridge Colby, analista di fama, architetto della Strategia per la difesa nazionale dell’amministrazione Trump del 2018 con un lungo trascorso al Pentagono e nell’intelligence. Il quale, dal suo profilo Twitter ha fatto emergere alcune considerazioni. Non è vero, per esempio, che la denatalità cinese finirà per demolirne l’economia, almeno non ancora. Nelle immense campagne dell’ex Celeste Impero c’è ancora una gigantesca fetta di popolazione che può essere attratta dalle città e dalle industrie, nella manifattura e persino nella finanza.

“La maggior parte della crescita della forza lavoro effettiva della Cina negli ultimi 20 anni”, si legge tra i vari post, “è derivata dall’urbanizzazione, con oltre 270 milioni di persone che hanno lasciato le campagne per le opportunità di lavoro nelle città”. Dunque lo spostamento di braccia dalla periferia alle metropoli è stato uno dei motori della crescita negli ultimi anni. E, con ogni probabilità, potrebbe esserlo anche nei prossimi.

I cinesi non dovrebbero preoccuparsi nemmeno troppo delle scarse nascite e dell’invecchiamento della popolazione. Perché proprio nelle campagne risiedono ancora mezzo miliardo di persone, “circa il doppio della quota rurale della popolazione degli Stati Uniti e dell’area Ocse (18,8%). Se la popolazione cinese fosse urbanizzata come quella di una tipica economia ad alto reddito, ecco che la stessa economia ne beneficerebbe”.

Tutto questo, però, accade mentre la Cina continua a scontare una crisi finanziaria e bancaria tra le più gravi degli ultimi anni. Una voragine che può valere fino a 60 mila miliardi di yuan, tra prestiti incagliati, scarsa liquidità e passivi in bilancio. Forse è anche per questo motivo che Pechino ha deciso di istituire un super organismo di regolamentazione per supervisionare i 400 mila miliardi di yuan (57,7 trilioni di dollari) di attività bancarie e assicurative del Paese, nonché le società di partecipazione finanziaria, nell’ultimo sforzo per affrontare il rischio finanziario.

La nuova National Financial Regulatory Commission incorporerà la China Banking and Insurance Regulatory Commission assorbirà l’organo di vigilanza della banca centrale per le società di partecipazione finanziaria e la funzione di protezione degli investitori sotto l’autorità di regolamentazione della Borsa, secondo un progetto di piano presentato all’Assemblea nazionale del popolo.
La China Securities Regulatory Commission avrà il rango di un’affiliata del Consiglio di Stato e sarà incaricata dell’approvazione delle obbligazioni aziendali, che in precedenza era dominio della National Development and Reform Commission, la principale agenzia di pianificazione economica del paese.

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