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L’illusione degli e-fuels e l’ineluttabilità dell’elettrico. Parla Naso (Motus-E)

Francesco Naso

In Ue si dibatte di carburanti sintetici, che rimangono una non-soluzione. Intanto il mercato ha già deciso: la vera protezione dei posti di lavoro (e dell’industria) passa dall’auto elettrica. In questa intervista il segretario generale di Motus-E traccia l’evoluzione dell’automotive, pro e contro delle tecnologie a disposizione e come preservare la competitività italiana su scala globale

La settimana scorsa è saltata l’approvazione della normativa europea sulla mobilità sostenibile, secondo cui tutte le nuove auto vendute dal 2035 in poi sarebbero dovute essere a emissioni zero. Una scelta che avrebbe de facto forzato la conversione all’auto elettrica, cosa che ha preoccupato gli italiani (in particolare il governo a guida Giorgia Meloni) per le difficoltà della transizione e l’impatto sull’industria dell’auto italiana. Ma mentre il governo esulta per la frenata, i rappresentanti d’industria guardano nervosamente al futuro. Abbiamo raggiunto Francesco Naso, segretario generale di Motus-E, l’associazione italiana che riunisce aziende, università e centri di ricerca attivi sul fronte della mobilità elettrica.

Come commenta il rinvio del petrol ban europeo?

Speriamo solo che la questione si risolva presto, in un verso o nell’altro, perché si sta perdendo tempo a discutere sul 2035 quando il tema vero è un altro: la capacità dell’Europa e dell’Italia di competere su una tecnologia dilagante. E questo non lo dice solo Motus-E, ma anche i costruttori di autoveicoli europei. L’incertezza in questo momento non fa bene a nessuno, a prescindere dal risultato del dibattito in corso in Germania, ossia l’eventuale inserimento dei carburanti sintetici nella normativa europea. Dato che nel regolamento si fa esplicito riferimento all’obiettivo zero emissioni allo scarico non mi è chiaro come questo potrebbe avvenire, ma da parte nostra non esistono posizioni pregiudiziali. Abbiamo un approccio laico sul 2035, ma appoggiamo la direzione chiara verso l’elettrico, che ha già dimostrato ampiamente di essere la soluzione più economica ed efficiente. Con una visione definita si dà la possibilità a imprese e cittadini di mettere energie, ricerca e risorse sull’opzione più efficace per decarbonizzare la mobilità.

Cosa non la convince dei carburanti sintetici?

Anzitutto occorre distinguere tra biocarburanti (biofuels) e i cosiddetti e-fuels (sintetici). I primi, se avanzati, provengono da scarti agricoli, grassi animali o vegetali esausti e materie non in concorrenza con materie prime alimentari. Tutto questo feedstock non è così abbondante, gli stessi produttori riconoscono che è difficile produrne abbastanza già solo per la domanda attuale. Le normative Ue prevedono un blending con i carburanti fossili e appare arduo anche raggiungere un obiettivo del 15-20% di miscelazione al 2030.

E gli e-fuels?

Anche qui la capacità produttiva e l’effettiva disponibilità è un grande punto interrogativo. Oltretutto, a ben guardare, gli e-fuels potrebbero avere impieghi molto utili in settori diversi dall’automotive. Dobbiamo ricordarci cosa dobbiamo decarbonizzare: non solo le auto (comprese quelle a combustione interna, fintantoché non si raggiungerà un parco full electric su scala globale, ma tutti i trasporti, incluso il navale e l’aereo, dove effettivamente gli e-fuel potrebbero dimostrarsi realmente funzionali. Per non parlare di altri settori in cui è difficile abbattere le emissioni, come la siderurgia, dove avrà molto senso utilizzare l’idrogeno, naturalmente “verde”. L’idrogeno è molto utilizzato anche per creare fertilizzanti, ma oggi proviene al 95% dal metano, e non è questa la strada per la decarbonizzazione. Dunque mi chiedo: saremo mai in grado di produrre abbastanza e-fuels a prezzi competitivi per quelli che sarebbero gli utilizzi realmente utili? E di fronte all’impossibilità di arrivare a volumi più elevati, perché non dovremmo concentrarli laddove non si può ancora impiegare la soluzione dell’elettrico a batteria, che è evidentemente più efficiente?

Ha ricevuto risposte?

Purtroppo no, perché in questo momento stanno prevalendo dinamiche di scontro tra tecnologie che a mio avviso non fanno bene a nessuno e rischiano solo di creare enormi danni. Oggi bisogna riconoscere che gli e-fuels hanno delle carenze dal punto di vista energetico. Si parte dal produrre idrogeno verde con energia rinnovabile mediante elettrolisi dall’acqua (che magari va anche desalinizzata). Poi serve catturare la CO2 e sintetizzare il carburante, che va distribuito alle pompe di benzina. Quindi finisce nelle macchine a combustione interna, che trasformano solo il 30% dell’energia racchiusa nell’e-fuel in movimento. Alla fine del ciclo ci portiamo a casa meno del 20% dell’energia iniziale. Siamo sicuri che questo sia un utilizzo efficace? La crisi attuale ci ha insegnato che dobbiamo usare bene l’energia e uno spreco del genere non ha senso in una prospettiva industriale. Poi c’è la questione della dipendenza dall’estero.

Ossia?

Secondo i dati Gse, al momento la gran parte del feedstock per produrre biofuel proviene dall’Asia. Anche in prospettiva mi sembra difficile che ci si possa basare su forniture interamente europee: servono terreni immensi e tanta acqua per la produzione di grandi volumi. Lo stesso vale per gli e-fuels: occorrono enormi quantità di energia rinnovabile a basso costo per produrli. Sinceramente non vedo l’indipendenza energetica sul piatto reale delle valutazioni.

Le giro una provocazione che ha lanciato da queste colonne il professor Cantamessa riguardo alla spinta sull’elettrico: avessimo optato per un un lock-in tecnologico a fine Ottocento, oggi andremmo con le macchine a vapore.

Raccolgo la provocazione: in realtà avremmo delle macchine elettriche ultra-performanti visto che i primi modelli di auto erano a batteria. Ma naturalmente all’epoca le reti elettriche e le batterie non erano adeguate, dunque le pompe di benzina si sono rivelate la soluzione più semplice. Oggi, invece, la rete elettrica è l’infrastruttura più capillare in assoluto a livello globale. La trasformazione tecnologica verso l’elettrico è un’evoluzione naturale. Le auto a combustione interna hanno limitazioni di tipo termodinamico: dopo un secolo e mezzo di sviluppo abbiamo raggiunto il limite di questa tecnologia. È fisiologico che ci si debba rivolgere altrove. Anche per questo tutti criticano l’Euro 7, che distrae solo importanti risorse economiche dagli investimenti sull’elettrico. In un momento come questo, in cui dobbiamo decarbonizzare velocemente, serve efficientare quanto più possibile le risorse.

E tanti saluti alla neutralità tecnologica?

È un po’ irrealistico pensare di portare avanti tutte le tecnologie, indipendentemente dalla loro efficienza, e tirare le somme tra un secolo. Banalmente per ragioni economiche, oltre che per la crisi climatica che richiede ormai una certa velocità di intervento. Sono d’accordo sul non escludere le soluzioni alternative: effettivamente il limite di zero emissioni allo scarico è tecnologicamente neutro, ma al contempo dà una direzione a chi deve fare investimenti importanti. L’auto elettrica rappresenta la via maestra semplicemente perché usa meno energia e sfrutta facilmente, senza dispersioni intermedie, quella rinnovabile, che stando a Confindustria coprirà 80% del fabbisogno italiano al 2030, anche al netto della domanda che aumenterà. E le reti si stanno già adeguando al futuro: c’è il piano RePowerEu, che porterà 540.000 posti di lavoro in Italia; ci sono gli investimenti pronti e la coda per installare gli impianti rinnovabili in Italia. Insomma, l’auto elettrica risponde oggettivamente alle esigenze di mobilità meglio delle altre tecnologie. Senza contare il guadagno in sicurezza energetica.

Non si rischia di togliere ossigeno allo sviluppo delle alternative, come l’auto a idrogeno?

L’idrogeno verde avrà un ruolo essenziale nella decarbonizzazione e la ricerca deve senz’altro andare avanti, ma bisogna essere realistici su quelli che potranno essere i suoi impieghi più efficaci. L’auto non sembra tra questi. Peraltro va ricordato che non è escluso dall’obiettivo di auto nuove a zero emissioni dal 2035. La direzione quindi l’ha data il mercato. Sugli altri impieghi resta da vedere quanto costerà e occorre tenere presente anche che è meno efficiente della semplice trasmissione di elettricità. La distribuzione non è facilissima, dato che la molecola è molto complicata da gestire, e convertirla in ammoniaca o idrogeno liquido per il trasporto comporterebbe un dispendio ulteriore di energia.

La superiorità dell’elettrico vale anche per i trasporti pesanti e a lunga distanza?

Cito un dato del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti: il 96% dei veicoli merci in Italia, leggeri e pesanti, fa meno di 300 chilometri al giorno: distanze compatibili con i veicoli elettrici a batteria. Il regolamento europeo (Afir) imporrà l’obbligo di infrastrutture di ricarica da almeno 350 kW in su ogni 60-100 km lungo la rete transeuropea Ten-T. Noi stimiamo che i viaggi da 800 km al giorno possano essere spezzati in due, con in mezzo una ricarica da 45 minuti, che peraltro coincide con l’obbligo di sosta per gli autisti. Vanno migliorate le prestazioni e abbassati i costi dell’elettrico, ma la tecnologia c’è già e ha tutti gli elementi per essere la più competitiva. Poi naturalmente vedremo come si orienterà il mercato. Per le distanze più alte esistono soluzioni alternative: ferrovie o trasporto navale, con quest’ultimo che sì potrebbe beneficiare degli e-fuels.

La competizione globale è serrata e i sussidi stanno facendo la differenza. Mercoledì Volkswagen ha annunciato di aver sospeso i piani di un nuovo impianto di produzione in Europa, mentre accelera sulla costruzione di un altro negli Stati Uniti. Intanto batterie e macchine cinesi stanno già attaccando aggressivamente il mercato Ue. Come si difende l’industria dell’auto europea?

Serve partire da una risposta commisurata all’Inflation Reduction Act. Che deve iniziare da un fondo comune europeo, perché non possiamo pensare di andare a velocità diverse: altrimenti gli Stati con più capacità di spesa staccano ulteriormente il resto d’Europa. Dopodiché la riforma sugli aiuti di Stato deve portare non solo al recupero delle zone deindustrializzate, ma anche al potenziamento di quelle già industrializzate e più esposte ai megatrend di trasformazione a cui stiamo assistendo a livello globale. Penso al Piemonte, al Nordest e una parte del Sud Italia. Il punto non è solo difendere l’industria europea, ma renderla realmente competitiva su scala mondiale.

Come siamo messi?

La Cina per ora si sta affacciando in Europa essenzialmente su segmenti premium, non c’è un’inondazione di auto cinesi a basso prezzo. Ma se continuiamo a non affrontare il tema e non spingiamo per una produzione di auto europee accessibili subiremo la concorrenza cinese e americana. Non è più una questione di posizionamento geopolitico, ma di risposta del continente europeo alle sollecitazioni delle altre potenze economiche. Aggiungo che la vera grandezza dell’Ira statunitense non sono solo i 370 miliardi di dollari, ma la semplicità e la chiarezza delle regole con cui si applicano i sussidi. In Ue accedere al supporto dei progetti è molto più complicato e questo è un problema che va assolutamente risolto.

E come commenta l’impatto della conversione all’elettrico sulla filiera?

Ricordo sommessamente che in Italia non produciamo più di 420-450 mila veicoli all’anno. Secondo varie stime, già nel 2023 un quarto di questi saranno elettrici. Dopodiché operiamo soprattutto nella componentistica: circa il 40% di quello che produciamo va a Stellantis e il 60% verso l’estero, specie in Germania. Stellantis ha annunciato che punta a vendere il 100% di veicoli elettrici in Europa al 2030. La stessa Volkswagen intende elettrificare l’intera linea prima del 2035, così come tanti altri costruttori. In un panorama come questo sarebbe folle non supportare in tempi rapidi la riconversione della filiera italiana: si rischia di arrivare tra qualche anno a produrre componenti che non avranno più mercato. Il costo più alto è quello dell’immobilismo.

C’è chi parla di cinquantamila o più posti di lavoro a rischio in Italia.

Su un argomento così importante bisogna essere molto chiari e affidarsi alle evidenze scientifiche. Con l’Università Ca’ Foscari Venezia abbiamo creato un osservatorio permanente, aperto a governo e istituzioni, che ha già mappato 2.500 imprese nel settore della componentistica per auto, sia quella tradizionale e invariante (che servirà anche per le auto elettriche, come i freni, ndr) che quella nuova. I risultati sono evidenti: sono 96 aziende e 14.000 professionisti su 280.000 che lavorano esclusivamente sull’auto a motore endotermico. Qui saranno indispensabili delle politiche serie per il reskilling. Gli impiegati sui componenti utili per l’elettrico, invece, sono 215.000. Vogliamo occuparci veramente di posti di lavoro? Oltre a salvaguardare i primi vediamo di rendere competitivi i secondi e di farli aumentare: servono crescita dimensionale delle aziende, M&A, collaborazione tra imprese, tecnici e formazione di nuove competenze. Dobbiamo partire oggi, altrimenti sarà tardi: da quando lo dico sono passati cinque anni, ossia un intero ciclo di studio universitario. L’aspetto della formazione è indispensabile per un Paese: il mondo sta cambiando e per competere a livello globale bisogna evolvere le proprie competenze sulle tecnologie che si stanno affermando.

Anche l’elettrico ha le sue potenziali criticità, relative al bisogno di materie prime critiche.

È indubbio che la Cina in questo momento abbia il predominio sulla raffinazione (e non l’estrazione) di diversi materiali strategici. Banalmente perché ha prodotto batterie agli ioni di litio per tutti quanti fino ad adesso (praticamente tutti ne portiamo una in tasca ogni giorno). Non è però un destino ineluttabile, è solo l’attuale realtà industriale. E non temiamo scarsità di materie prime.

Ci faccia una fotografia, materia per materia.

Il litio: si continuano a scoprire nuovi giacimenti perché è uno dei materiali più comuni sulla crosta terreste. Ci sono progetti interessanti anche in Italia a livello geotermico, che si possono sfruttare con nuove e più sostenibili modalità di estrazione. Il nichel: le batterie ne richiedono sempre meno e si stanno affermando altre soluzioni – tra tutte le batterie al litio-ferro-fosfato, tutti materiali catodici abbondanti. Il manganese: non è un problema di abbondanza, basta investire per togliere quote di raffinazione alla Cina. Le terre rare: non ne servono molte nelle batterie, sono perlopiù utilizzate nell’industria tech e in misura marginale nei motori elettrici. Il neodimio, ad esempio, è impiegato per i motori a magneti permanenti, ma molte case automobilistiche stanno progressivamente abbandonando questa soluzione. Per il cobalto, che è ampiamente impiegato anche dall’industria di raffinazione e dell’elettronica di consumo, i primi che si stanno adoperando per garantire filiere di approvvigionamento etiche sono i costruttori di autoveicoli, e se ne userà sempre meno con l’affermarsi di tecnologie che ne limitano o azzerano l’utilizzo. Questo anche per dire anche quanto sia reattiva l’industria a livello di sostenibilità e supply chain.

Ci sono innovazioni in vista?

In vista ci sono le batterie a stato solido. Quelle agli ioni di sodio sono già una soluzione molto più concreta del previsto. Si pensava che si sarebbe diffusa tra dieci anni, ma i primi veicoli alimentati con batterie agli ioni di sodio arriveranno già nel 2023. E come evidenziamo in uno dei nostri ultimi report, tutte queste materie non finiranno nell’ambiente come i combustibili fossili, ma avranno una seconda vita (come lo stoccaggio statico di energia a livello industriale o domestico, ndr) dopo la quale saranno riciclate. Spesso ci si dimentica che, per legge, le batterie non possono essere smaltite in discarica. Non saranno mai dei rifiuti, ma delle miniere che avremo in casa. Stimiamo che il riciclo delle batterie per veicoli elettrici in Europa genererà ricavi per oltre 6 miliardi di euro al 2050 (600 milioni solo in Italia, che ha una consolidata esperienza nel riciclo e può diventare un Paese leader), una cifra che crescerà esponenzialmente quando il parco circolante sarà full electric. Purtroppo in Italia stiamo attraendo pochi investimenti nel settore delle gigafactory, cosa che limita il nostro potenziale; più produrremo, più potremo riciclare.

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