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Ecco gli errori che Meloni non deve fare in politica estera. I consigli di Pomicino

“Il tour internazionale di Giorgia Meloni sta dando credibilità a tutto il Paese dopo anni di minusvalenze”, spiega l’ex ministro Dc. Australia e Arabia Saudita? “Ben vengano nuove relazioni per affermare il nostro multilateralismo. Ma tutto ciò va messo a regola. Tramite questo aggancio al binario euroatlantico la premier si sta facendo conoscere in Paesi lontani, ma altamente strategici, non solo cogliendo l’occasione del G20 ma anche al di là del G20”

India, Eau, Israele, Arabia Saudita, Africa. Giorgia Meloni è partita da un Paese la cui la reputazione internazionale era stata smarrita e gli sta dando credibilità dopo anni di minusvalenze. Questo il rilievo che l’ex ministro e parlamentare della Democrazia cristiana, Paolo Cirino Pomicino, affida a Formiche.net commentando il tour internazionale del presidente del Consiglio che, dopo le visite nell’indo-pacifico e nel golfo, in 24 ore è passata dal premier olandese Mark Rutte a quello israeliano Benjamin Netanyahu, con il comune denominatore del nuovo ruolo che l’Italia aspira ad avere, in Ue e fuori dall’Ue.

PAOLO CIRINO POMICINO POLITICO

Perché il rapporto Roma-Parigi sarà cruciale per capire che Europa ci attende?

Perché è una intuizione legata a fatti lontani circa trent’anni fa, quando ci fu un patto non scritto fra Francia e Germania dove la Germania avrebbe investito nei Paesi balcanici, fino in Grecia, e la Francia in Italia. Non dimentichiamo ciò che ha ricevuto il capitalismo francese senza alcuna reciprocità, si pensi soltanto ai problemi di Fincantieri. Ovvero, noi abbiamo venduto pezzi importanti delle nostre eccellenze creditizie, produttive, alimentari e infrastrutturali senza avere una capacità di internazionalizzare il nostro capitalismo. Un fatto è incontrovertibile: gli investimenti francesi in Italia sono dilaganti, mentre non c’è un solo investimento tedesco in Italia. Di contro i tedeschi sono intervenuti pesantemente nella crisi greca. Naturalmente questa non è una cosa negativa, ma penso che dovrebbe esserci una reciprocità che, al momento, non c’è stata.

Per quale ragione?

Osservo che la sinistra al governo Prodi è stata premiata in massa con la legion d’onore ma senza internazionalizzare davvero. Cito su tutti il caso Wind, quando noi vendemmo la Telecom nel gennaio 1998 e cinque mesi dopo autorizzammo l’Enel a realizzare Wind in partnership con France Telecom e Deutsche Telecom: noi ci abbiamo rimesso 5000 miliardi vecchie lire. Aggiungo che negli ultimi trent’anni l’Italia ha conosciuto una povertà raddoppiata, una crescita dello 0,8%, un aumento delle disuguaglianze con salari che hanno perso potere di acquisto rispetto a tutti gli altri Paesi. Siamo in una condizione di grande difficoltà.

India e Eau, poi Rutte e Netanyahu: come giudica l’impronta che Giorgia Meloni sta dando alla politica internazionale?

La destra al governo comincia oggi a ragionare e la premier si sta dimostrando molto più saggia e più prudente di quanto si potesse immaginare, avendo vissuto una vita intera all’opposizione. Intanto si è basata sui due riferimenti tradizionali del nostro Paese, quello europeo e quello atlantico: due elementi che non sono mai stati in discussione. Tramite questo aggancio al binario euroatlantico la premier si sta facendo conoscere anche in Paesi sì lontani, ma altamente strategici, non solo cogliendo l’occasione del G20 ma anche al di là del G20. Penso agli Emirati Arabi Uniti, al Qatar, all’India. Giorgia Meloni è partita da un Paese in cui la reputazione internazionale era stata smarrita.

Ovvero?

In passato eravamo noi un punto di riferimento per i libici. Addirittura gli americani e gli inglesi ci chiedevano di garantire i loro interessi in loco, dopo episodi come la bomba sull’aereo londinese e l’attacco terroristico alla discoteca. Non amavamo Gheddafi in quanto tale, ma era in grado di gestire le tribù. Fui presente ad una telefonata tra Giulio Andreotti e George Bush senior: dopo la liberazione del Kuwait dalle truppe irachene, Bush voleva invadere l’Iraq di Saddam Hussein, ma Andreotti volle mettere al corrente Bush che la rimozione di Saddam Hussein avrebbe scatenato una lotta tra sciiti, sunniti e varie etnie minori. Così avvenne dieci anni dopo, con Bush figlio quando l’Europa non c’era più politicamente e Bush figlio addirittura senza il mandato dell’Onu andò a bombardare Baghdad. Oggi vediamo sotto i nostri occhi quello che Andreotti aveva anticipato, ma non perché gli esponenti della Dc erano figli del Dio divino, bensì perché erano persone che sapevano fare la politica. In sostanza dovevano essere fermamente atlantici, ma sapendo di avere anche un’autonomia nell’ambito del mondo arabo. Ricordo quando Andreotti nel 1982 portò Arafat, all’epoca capo dei palestinesi, a Montecitorio per una riunione dell’interparlamentare di cui era presidente. In quel momento gli americani non gradirono perché lo ritenevano un terrorista. Nove anni dopo, però, alla Casa Bianca Arafat e Rabin si strinsero la mano dinanzi a un Bill Clinton radioso. L’accordo, quindi, sta nel nel riconoscersi reciprocamente: si chiama progettualità politica.

Quali sono gli ambiti dove la politica estera italiana dovrebbe distendersi maggiormente?

Mi sembra che la premier sia partita bene: è rapida e tenace. Forse non ha il supporto di una classe dirigente formata. Ma sta dando credibilità e affidabilità al governo italiano dopo anni di minusvalenze, cosa non di poco conto visto che ha preso in mano un Paese la cui reputazione era stata smarrita e crollata in termini di reputazione.

Dopo India e Eau, ambiti come Australia e Arabia Saudita sono da attenzionare?

Ben vengano nuove relazioni per affermare il nostro multilateralismo. Ma tutto ciò va messo a regime. Oggi il mondo non è più diviso in due come ai tempi della guerra fredda, bensì esiste una spinta autonomistica in cui nuovi grandi soggetti si affacciano nell’ambito della scena internazionale: uno per tutti l’India, non a caso il teatro più importante oggi è l’Indo pacifico dove in realtà ci sono legami molto forti con gli Stati Uniti d’America di Giappone e Corea del Sud, senza dimenticare le Filippine e molti altri Paesi asiatici, tenendo presente tra l’altro che stanno emergendo anche importanti realtà africane che nei prossimi trent’anni faranno sentire la propria voce.

@FDepalo

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