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Investor Day di Tesla, tutti gli spunti per il mercato (e non solo)

Delineati i prossimi passi della creatura di Elon Musk per dominare l’industria dei veicoli elettrici. Dalle scelte ingegneristiche a quelle di business strategy: dettagli che danno un segnale molto forte al mercato e ai fornitori ma scontano un’eccessiva fiducia sulla risposta dei produttori di materie prime

Nella giornata di mercoledì si è tenuto forse uno degli appuntamenti più attesi per la nascente industria dei veicoli elettrici, ovvero l’Investor Day di Tesla. L’azienda di Elon Musk, che oggi si aggira intorno ai 600 miliardi di capitalizzazione borsistica e che non ha poco risentito delle scelte dell’istrionico fondatore e proprietario, ha svelato i suoi piani d’investimento e le scelte manageriali-ingegneristiche per rispettare i suoi obiettivi.

La società di Musk si è avvicinata all’evento con numeri importanti: con 4 milioni di vetture elettriche consegnate in tutto il mondo, con il mercato statunitense al primo posto, seguito dalla Cina e in crescita quello europeo. Anche i numeri di febbraio di quest’anno registrano segnali molto incoraggianti, con un +32% di vendite rispetto al 2022. Nulla che gli investitori già non si aspettassero.

Quello che è invece importante segnalare, è l’enfasi posta dallo stesso Musk sulla necessità di sviluppare una “sustainable energy economy”, la cui implementazione su scala globale richiederà – secondo i calcoli dell’amministratore delegato – 240 TWh di batterie e circa 10 trilioni di dollari di investimenti. Quello che è sembrato mancare sono stati i dettagli effettivi su come Tesla intende contribuire in questa direzione. Pochi dettagli sulle novità che aspettano la Model 2, la Tesla più “popolare” come prezzi, o sulla costruzione della quinta gigafactory in Messico, a Monterey, che punterà sulla produzione di veicoli a basso costo.

Alcuni annunci dell’azienda nelle settimane e mesi scorsi hanno dato qualche indizio. Approfittando degli ingenti incentivi dell’Inflaction Reduction Act (IRA), e realizzando le difficoltà in Europa per via dei costi energetici, Tesla aveva già deciso a fine febbraio di prioritizzare l’espansione della produzione di celle per batterie negli Stati Uniti, nell’esistente factory in Texas, nonostante si fosse impegnata a costruire una gigafactory vicino a Berlino. Inoltre, durante l’evento Tesla ha confermato che inizierà la costruzione di una raffineria di litio a Corpus Christi (circa 40.000 tonnellate di litio, secondo i dati di Benchmark Minerals Intelligence), in prossimità dei suoi impianti già operativi, azzardando l’integrazione del business verso gli stadi della filiera attualmente più complessi, costosi e rischiosi: quelli della conversione chimica del carbonato o idrossido di litio in composti puri al 99.9% per poter essere utilizzati nella produzione dei catodi. Proprio nel prossimo quadrimestre l’azienda si aspetta di iniziarne la produzione in scala (60 GWh), sempre in Texas.

Infine, dalla sua presenza downstream (batterie) ai piani nei segmenti midstream non sono ancora seguiti fatti agli annunci, alcuni rimasti suggestivi, di investire direttamente nei siti estrattivi come auspicato dallo stesso Musk nei mesi scorsi. Ed è qui che la narrazione tra il brand Tesla, le aspettative positive degli investitori e le ottime performance dell’azienda si distaccano dalla realtà di una non così semplice scalabilità della produzione mineraria rispetto alle grandi aspettative – e target climatici – dell’industria.

Ma partiamo dalle notizie positive. Innanzitutto, un grande segnale (anche per il messaggio agli altri automakers che entrano in competizione con l’americana per gli EV) è la conferma di Tesla di aver ottimizzato la produzione. Dal 2017, l’unità di guida è del 20% più leggera, utilizza il 25% in meno di terre rare ‘pesanti’ nel vano motore elettrico mentre gli impianti sono del 75% più piccoli e del 65% meno costosi. Benefici dell’economia di scala, si direbbe, e che potrebbero essere la chiave per poter raggiungere la parità di prezzo con i veicoli a combustione interna (ICE), vera spada di Damocle per la penetrazione di massa degli EV. Il continuo efficientamento nei costi di produzione delle batterie potrà infatti mitigare, in parte, l’aumento dei prezzi sostenuto delle materie prime e il loro peso ($) complessivo nella manifattura al kilowattora.

In questa direzione, gli ingegneri di Tesla hanno infatti confermato che i nuovi processi produttivi e le tecnologie di packaging delle celle, oltre alla penetrazione di software di controllo più complessi e di microchip, riusciranno a dimezzare ulteriormente i costi di produzione. Tenendo presente che, ad oggi, la batteria da sola conta per quasi 2/3 del costo complessivo dell’EV. Non solo: secondo Dario Duse, consulente industriale di AlixPartners contattato dal Sole 24 Ore, un sistema di trazione elettrico, oggi, costa il 58% in più rispetto ad un ICE tradizionale.

L’obiettivo di Musk è vendere 20 milioni di veicoli elettrici entro il 2030, una cifra notevole considerando che l’anno scorso Tesla ha venduto 1.3 milioni di unità. Senza contare la sfida materiale: se l’azienda rispettasse l’ambizioso target, solo Tesla consumerebbe 1.2 milioni di tonnellate di derivati chimici del litio, più di quanto prodotto a livello globale nel 2022, secondo Benchmark.

Altro spunto è la scelta di optare per batterie più piccole, il che significherebbe ridurre il “peso” materiale per unità venduta e al contempo costruire più veicoli elettrici a parità di litio, cobalto, nickel e manganese consumati. Quali, nello specifico? La scommessa sarà – ringraziano i produttori cinesi CATL e BYD che dominano il mercato – sulle batterie al litio-ferro-fosfato (LFP), affidabili, con buona densità energetica e soprattutto le meno care. Secondo Tesla, il futuro delle altre tecnologie, come quelle basate sul nickel, sarà specialmente per lo stoccaggio energetico domestico e industriale (ESS).

Vi sono poi due importanti novità che avranno un impatto importante (ma non decisivo) sulle filiere a complemento dei sistemi BEV (battery electric vehicle). Il primo è l’annuncio di tornare al “passato”, ovvero rinunciando all’utilizzo dei magneti permanenti di terre rare nei motori elettrici dei prossimi veicoli. Tesla aveva iniziato ad utilizzarli nel 2017, in parallelo ai motori a induzione, nel Modello 3 e più di recente nell’Y. Non è stato spiegato quale sarà il rimpiazzo tecnologico (alcuni esperti scommettono sempre sui motori sincroni con magneti di ferrite), ma è lecito pensare che la scelta sia dovuta principalmente ai rischi lungo la supply chain, dal momento che i magneti di terre rare sono sostanzialmente un monopolio cinese, oltre ad essere sotto scrutinio ESG per i costi sociali e ambientali dell’estrazione delle terre rare. Anche altri produttori, come Toyota, BMW e Volkswagen, hanno puntato a ridurne l’utilizzo seppur questo comporti un trade off con la batteria. Le stime di mercato ci dicono che, al momento, quasi il 95% dei BEV utilizzano motori elettrici che impiegano magneti di terre rare, dal momento che garantiscono ottime performance (riduzione del peso della batteria e complemento del driving range del veicolo).

Difficile pronosticare quali effetti la decisione di Tesla avrà sulla filiera. L’uscita di un grande OEMs potrebbe alleviare solo parzialmente lo squilibrio tra domanda e offerta: secondo le stime di Adamas Intelligence, i motori elettrici nel 2022 contavano solo per il 12% del consumo di magneti, una fetta dentro la quale Tesla era responsabile del 15-20%. Ma è chiaro che lascerà ulteriormente spazio di manovra ai produttori di auto cinesi che avranno un motivo in più per strappare forniture.

La seconda novità – probabilmente la più inaspettata – è la decisione degli ingegneri di Tesla di ridurre del 75% il consumo di microcontrollori al carburo di silicio (SiC). Una notizia che ha fatto tremare le quotazioni borsistiche di STMicroelectronics, azienda italiana leader mondiale insieme alla tedesca Infineon e all’americana Wolfspeed. Una decisione che probabilmente è allineata alla scelta di un sistema a batteria più compatto, oltre alla difficoltà che persiste nella scalabilità della produzione di chip considerando la crescente domanda dall’industria automobilistica.

Infine, le notizie (cattive) che Musk non ha dato. Ci mancherebbe: serve trasmettere fiducia ai suoi investitori, ma se davvero il plurimiliardario ha a cuore la transizione sostenibile attraverso l’elettrificazione su scala globale – a partire naturalmente dalla flotta automotive – bisognerebbe dare i numeri, non solo con acquisizioni dubbie.

Musk ha dichiarato che per un’elettrificazione di massa necessiteremmo di 240.000 GWh di celle per batterie, e se assumessimo che la tecnologia predominante rimarrà la batteria al litio (e probabilmente non sarà così, dal momento che la corsa dei prezzi legata al deficit prospettato dal 2030 in poi stimolerà ancor di più ricerca e sviluppo per nuove tecnologie, come le batterie allo stato solido etc.), parleremmo di circa 160 milioni di tonnellate di carbonato di litio equivalente. Per un confronto, la produzione attuale a livello mondiale è di circa 700-800.000. È evidente che le stime e i target di Tesla non vanno presi in assoluto. Ma la direzione è quella, gli ostacoli per arrivarci – e su cui l’Investor Day avrebbe dovuto concentrarsi – sono i tempi e il capitale a monte. Gli analisti più avveduti lo chiamano “the great disconnect”, ossia la distanza che divide il settore downstream (EV e batterie) e quello minerario in termini di investimenti e di tempistiche per portare il prodotto sul mercato. È molto più facile raccogliere fondi e investimenti sulla tecnologia del futuro che raccontare quanto sia difficile ottenere i permessi per l’estrazione, il know-how e la stabilità per processare e ottenere composti di litio sufficientemente puri. Oggi le stime ci dicono che per 10 dollari investiti sulle batterie, soltanto 1 viene garantito più a monte, nonostante l’enfasi crescente sulla necessità del reshoring negli Stati Uniti e in Europa.

In tempi non sospetti Musk aveva ricordato, in uno dei suoi roboanti tweet, quanto investire in capacità di raffinazione fosse essenziale e, al contempo, remunerativo per l’industria delle batterie. Oggi diciamo che aveva ragione, e torto allo stesso tempo: serve guardarsi alle spalle per poter essere sicuri di andare avanti. Nella complessa supply chain delle batterie, servirà un Investor Day anche per l’industria che più di tutti fatica ad attirare denaro (molto meno attenzione, per questioni socio-ambientali e il peso geopolitico in questa fase) rispetto all’importanza economica che avrà per la transizione: quella mineraria.

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