I Paesi sudamericani si sono riuniti a una Convention sull’industria mineraria a Toronto. L’idea è quella di avanzare un cartello tra i Paesi produttori dell’oro bianco per valorizzare le risorse domestiche e trattenere le attività a maggior valore aggiunto. Dalla processazione alla corsa alle batterie. Intanto le riserve globali si espandono, mentre l’Europa…
Argentina, Cile, Bolivia e Brasile stanno valutando di creare un cartello del litio, simile all’Organizzazione dei Paesi Produttori di Petrolio (Opec), per catturare lo sviluppo delle filiere a valle e limitare così i rischi della “maledizione delle risorse” che già in altri settori ha lasciato i Paesi ricchi di materie prime senza un decollo industriale.
La rivoluzione delle batterie e dei veicoli elettrici (EV) rappresenta un occasione generazionale per quei Paesi che godono di importanti risorse e riserve di materie prime critiche come litio, cobalto, nickel e terre rare. Il gruppo, che proverebbe ad emulare quanto fatto dalle petromonarchie del Golfo e dai Paesi africani sul petrolio, vorrebbe rafforzare il coordinamento della produzione, influenzando i prezzi e promuovendo le migliori pratiche sociali e ambientali nel settore minerario. È quanto i rappresentanti della delegazione argentina avrebbero annunciato all’edizione della PDAC, Convention per l’industria mineraria che si è tenuta a Toronto, in Canada. “Dobbiamo prepararci per quanto ci aspetta e adattarci – iniziando per esempio con le celle, industrializzarci e puntare alle batterie”, le parole di Fernanda Avila, sottosegretario all’Industria mineraria.
Si tratta di un’ambizione condivisa anche dall’Indonesia, che non ha nascosto i suoi piani – suffragati anche dalle restrizioni annunciate per l’esportazione di nickel – di diventare un importante hub manifatturiero di batterie ed EV. I dialoghi tra i tre Paesi latinoamericani hanno iniziato a prendere quota lo scorso luglio, quando i ministri degli Esteri si sono incontrati alla Conferenza delle comunità caraibiche e sudamericane a Buenos Aires. Argentina (19 milioni di tonnellate metriche), Cile (9.8 milioni) e Bolivia (21 milioni) – globalmente conosciuti come “Il Triangolo del Litio” – contano infatti per il 56% delle riserve di litio conosciuto. Argentina e Cile, solo nel 2020, hanno contato per il 32% della produzione di carbonato di litio equivalente (LCE).
Mentre Argentine e Cile già vantano un settore minerario maturo e attivo – con investimenti delle principali aziende produttrici, tra cui Albemarle, Livent e le cinesi Ganfeng e Tianqi (che possiede quote sull’azienda cilena SQM, che nel 2022 ha contato per il 19% del mercato) rispettivamente nei siti rocciosi argentini e nelle salamoie di Atacama – la Bolivia ha solo di recente annunciato piani per lo sviluppo delle sue capacità domestiche, selezionando un consorzio industriale guidato dal CATL per l’estrazione del litio. Anche il Brasile guarda sempre di più al litio come una risorsa strategica per lo sviluppo della sua industria domestica, contando sull’expertise in ambito minerario che già vede il Paese come principale produttore al mondo di niobio, un altro materiale critico, e in ambito automobilistico. L’azienda Sigma Lithium a breve inizierà le fasi produttive nel sito di Grota do Cirilo, nello stato di Minas Gerais, vantando uno dei processi estrattivi più sostenibili su scala mondiale. L’output previsto dovrebbe essere intorno alle 270.000 tonnellate di concentrato di litio, pari a 36.700 LCE.
Anche il Messico, tradizionalmente più integrato a livello commerciale con il Nord America, potrebbe diventare potenzialmente un partner di primo ordine. Con circa 1.7 milioni di tonnellate di riserve, il Paese, su spinta del presidente Andres Manuel Lopez, ha appena varato un importante riforma del settore minerario, puntando alla nazionalizzazione.
In questo contesto, l’elefante nella stanza è evidentemente la Cina con la sua penetrazione nel settore minerario. Nel corso dei primi due decenni di questo secolo Pechino ha gettato le basi rafforzando le relazioni commerciali con i tre Paesi sudamericani, attraverso prestiti garantiti da fondi di sviluppo e dalle banche controllate dallo stato. Secondo un report dello US Congressional Research Service, la Cina ha prestato, cumulati, 17 miliardi di dollari all’Argentina e 3.4 miliardi alla Bolivia tra il 2005 e il 2020.
Considerando il livello di penetrazione cinese nella regione, un cartello industriale sul litio potrebbe avere severe ripercussioni sugli equilibri globali, o creare al contrario una relazione di dipendenza strategica paragonabile a quella che gli Stati Uniti hanno avuto con i paesi dell’OPEC. La Cina importa quasi il 90% del litio estratto in Australia, ma con le relazioni tra Camberra e Pechino sul filo del rasoio (complice anche l’allineamento australiano al Quad e alla strategia di “contenimento” della Cina in Asia-Pacifico), il progressivo allentamento dei vincoli commerciali (nei prossimi anni gli accordi tra aziende midstream cinesi e società minerarie australiane verranno meno) porterà la Cina a consolidare la sua presenza sul mercato sudamericano. L’azienda automobilistica Chery vorrebbe investire 400 milioni di dollari e costruire un impianto di produzione di batterie in Argentina, mentre Jujuy, una delle tre regioni che producono litio, sarebbe in trattativa con un’azienda cinese per la produzione di catodi.
È tuttavia da vedere se l’iniziativa sudamericana potrà effettivamente prendere corpo ed essere efficace rispetto alle aspettative dei governi nazionali. Al contrario del petrolio, la produzione del litio è più difficile da standardizzare, dal momento che dipende case-by-case dai siti estrattivi che si distinguono per il grado di concentrazione, oltre alla natura mineralogica e geologica. La produzione da spodumene roccioso australiano o argentino, infatti, è molto diversa per costi di capitale e processi tecnologici da quella che avviene per “evaporazione” nelle salamoie cilene. Se, infine, l’obiettivo è sviluppare gli stadi a maggior valore aggiunto – catodi e batterie – il problema potrebbe essere quello di scommettere su un segmento in cui la competizione è già elevatissima (con la Cina first mover mentre Usa e Ue rincorrono), drenano risorse e investimenti nelle attività estrattive dove il vantaggio competitivo di Argentina e Cile è già importante.
Quello che è certo è che la rapida crescita della domanda incentiverà gli investimenti in nuovi siti produttivi, anche al di fuori della Cina e delle sue capacità di processazione. La tenuta rialzista dei prezzi – dovuta non tanto alla scarsità in sé della materia prima, quanto al differenziale di tempi e capitali investiti in capacità estrattive e di raffinazione rispetto agli stadi downstream – sarà un elemento chiave per l’emergere di nuovi attori con l’approfondirsi delle attività esplorative. Ne sono un esempio i recenti annunci di India e Iran che hanno scoperto importanti riserve nazionali di litio, ma che vanno contestualizzate in un mercato complesso: seppur l’iter di approvazione delle miniere possa essere relativamente variabile a seconda dei regimi normativi, tendenzialmente un sito non entra sul mercato prima di 7 o 10 anni.
È un fattore di cui deve tenere conto anche l’Europa. Secondo indiscrezioni trapelate su Euractiv, l’Ue si porrà l’obiettivo di produrre sul continente almeno il 10% delle domanda di materie prime critiche, il 40% dei prodotti raffinati e almeno il 15% del consumo da attività di riciclo per sostenere gli obiettivi del Green Deal, secondo quanto previsto dall’EU Critical Raw Materials Act. È evidente che si tratta di obiettivi ambiziosi, ma che dovranno necessariamente scontrarsi con una realtà globale sempre più frammentata, dove la corsa alle batterie e alle tecnologie pulite avviene in un contesto di crescente “nazionalismo delle risorse” e di tecno-protezionismo. Con evidenti riflessioni sui mercati e sui prezzi.