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La strategia italiana per le materie prime critiche. Parla Vigna (Mimit)

Giacomo Vigna

Non c’è transizione, né ecologica né digitale, senza le materie prime per tecnologie e infrastrutture. E l’Italia, come gli altri Paesi occidentali, deve ripartire da capo per ricostruire e proteggere la propria catena del valore. Giacomo Vigna, che co-dirige il tavolo di lavoro Mimit-Mase, analizza con Formiche.net le sfide e le direttrici del governo

Negli ultimi mesi è aumentata esponenzialmente l’attenzione sul tema delle materie prime critiche, che sono condizione necessaria per la doppia transizione – ecologica e digitale – e base delle tecnologie che ne stanno alla base. Naturalmente, poter contare su un approvvigionamento sicuro e pulito di minerali critici diventa vitale. Ma i Paesi occidentali hanno passato decenni ad appaltare l’estrazione e la raffinazione altrove, per poi scoprirsi (così come avvenne col gas russo) pericolosamente vulnerabili rispetto a chi produce e ci rifornisce.

Stando così le cose, l’Occidente si sta muovendo per ribilanciare il campo di gioco. Gli alleati transatlantici stanno dialogando per creare un “cartello” di acquirenti (con l’obiettivo di risolvere le frizioni dovute all’Inflation Reduction Act). Da parte sua, Bruxelles presenterà il suo Critical Raw Materials Act a marzo. E nel mentre, a Roma, si è riunito per la prima volta il tavolo di lavoro per le materie critiche. Abbiamo raggiunto Giacomo Vigna, che ne dirige i lavori per il Ministero delle imprese e del made in Italy (Mimit) insieme ai colleghi del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica (Mase), per una panoramica sulla sfida delle materie prime in Italia e oltre.

Dottor Vigna, ci può dare una breve panoramica sull’approccio italiano alle materie prime per la transizione?

In Italia il problema delle materie prime critiche non si è mai affrontato con molta attenzione per un motivo abbastanza semplice: a partire dagli anni Settanta non si estrae più e le miniere che prima erano attive sono state chiuse. Oggi ne abbiamo oltre 3.000 tra chiuse e abbandonate e molte sono piene di rifiuti estrattivi (gli “scarti” dell’escavazione, ndr) che a loro volta contengono altre materie prime – anche critiche –, ma che non si possono sfruttare per via della normativa vigente. Questa situazione è abbastanza diffusa in Europa. Così com’è comune una carenza di geologi e di corsi universitari che un tempo ne formavano a sufficienza. Di conseguenza non abbiamo più né le competenze per poter sfruttare le nostre risorse, né un ecosistema industriale per poterlo fare. Con ciò intendo che nei decenni passati abbiamo smesso anche di raffinare i materiali e produrre i semilavorati pronti per l’utilizzo industriale.

Al governo chi si occupa di questi temi?

Essenzialmente nessuno fino al 2021, quando Silvia Grandi (direttore generale del Dipartimento di economia circolare al Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica, ndr) ha deciso di creare il tavolo delle materie prime critiche. Dopodiché sono subentrato io e ho portato il progetto al Comitato interministeriale per la transizione ecologica. Al tempo il Presidente Mario Draghi diede mandato ai Ministeri dello Sviluppo Economico e della Transizione Ecologica, che con il decreto dello scorso settembre hanno istituito il tavolo congiunto. Ora lavoriamo in veste ufficiale tra Mimit e Mase assieme ad altre istituzioni, diversi centri di ricerca e associazioni, consci della necessità di delineare e perseguire una strategia di lungo periodo.

Ce la può anticipare?

Ora siamo in fase di studio per capire quali materie siano strategiche per l’Italia e quando, da qui ai prossimi vent’anni, possiamo aspettarci un disequilibrio (a livello di prezzo o di insufficienza di offerta) che ci possa mettere in difficoltà. Dopodiché, i pilastri della nostra azione sono tre. Anzitutto serve estrarre le materie in casa, o perlomeno in Paesi like-minded, e recuperare la capacità di processarli. Secondo, dobbiamo progettare soluzioni che non abbiano bisogno di materie critiche o che possano avvalersi di quelle riciclate. Infine dobbiamo dedicarci al recupero dei rifiuti, specie le cosiddette urban mines (i metalli preziosi contenuti nei rifiuti elettronici, ndr). L’ecodesign diminuirà la domanda e il Joint Research Centre di Ispra stima che il materiale recuperato dalle urban mines potrà coprire fino al 30% della domanda complessiva.

E come pensate di arrivarci?

Anzitutto serve capire (e questo è un tema politico sul quale ancora non mi so esprimere) per cosa la tanto ricercata “resilienza” delle nostre economie – che poggia sulla certezza di poter disporre di molte delle circa 30 materie prime critiche – sia strategica. Per la crescita economica e ciò che essa comporta? Per la transizione verde? O per quella digitale? Per l’industria della difesa o per quella della salute? L’industria ci può dare il suo variegato punto di vista, ma finché le filiere potranno contare sui loro canali di approvvigionamento non saranno incentivate ad aumentare la propria “resilienza” perché non si sentiranno a rischio. Per l’industria, com’è naturale, non conta tanto la provenienza delle materie quanto il costo. Per lo Stato e per un’unione fatta di Stati Membri, quello che conta è invece proteggere una determinata idea di futuro. In questo contesto, si cerca di definire una politica industriale, commerciale ed economica, figlia di una visione globale, a prova, appunto, di futuro. Temo che per un dato periodo, in dati contesti internazionali, si dovrà decidere di finanziare dei business in perdita pur di avere un’alternativa all’egemonia asiatica.

Qual è lo stato del dibattito a livello europeo?

L’Ue si occupa di questo tema da tempo. Il Joint Research Centre di Ispra, ad esempio, lo studia dal 2010, ma gli scenari che ha offerto non sono mai stati tradotti in termini di politica industriale se non in tempi recentissimi, con l’istituzione dell’Alleanza europea per le materie prime (Erma) o le dichiarazioni inerenti il Green Deal Industrial Plan, con l’annesso Critical Raw Materials Act.

A livello legislativo, dove si può iniziare a intervenire?

Potremmo iniziare cambiando la normativa sui rifiuti estrattivi per poterli recuperare. Sarebbe saggio poi modificare la normativa estrattiva partendo dal numero dei soggetti (troppi) e dai tempi (troppo lunghi) per concedere i permessi. In pratica, si dovrebbe legiferare per legare la famosa “visione di futuro” al supremo interesse nazionale per il tramite dell’interesse economico rappresentato dall’interesse all’estrazione ed al recupero di determinate materie prime critiche.

L’ha detto anche la Presidente [della Commissione europea, Ursula] Von der Leyen: senza materie prime critiche non si fa la twin transition (ecologica e digitale, ndr). Sempre ammesso che sia questo l’obiettivo ultimo e la strategia suprema. Io direi: niente materie prime critiche, niente resilienza. E quindi ci potremmo trovare severamente dipendenti da Paesi con un concetto di democrazia e libero scambio diverso dal nostro. Vale la pena di modificare la normativa? Io direi di sì.

Gli ambientalisti hanno iniziato a parlare di climate mining: rende l’idea. Il rispetto dei più alti standard ambientali in ambito estrattivo rende tutto più costoso e più lento, ma è ovvio che li vogliamo tutti. In primis perché ci aiutano a trasformare i siti estrattivi in luoghi migliori dopo la chiusura delle miniere, a tutto vantaggio della collettività e a carico di chi ha estratto. E poi, più importante ancora, perché nel tempo rappresenteranno una barriera all’ingresso di materie prime critiche da Paesi dove non sono rispettati gli stessi standard. Mica vorremo fare la transizione energetica inquinando il resto del mondo, no?

A livello italiano, su che giacimenti possiamo contare?

Siamo ricchi di materie prime critiche, specie in Nord Italia, Toscana e Sardegna. Le mappe geominerarie danno una buona approssimazione di cosa abbiamo e dove: uno degli obiettivi del tavolo nazionale (che si avvale di una squadra di geologi) è aggiornare la carta geomineraria italiana. In parallelo lo Stato deve offrire un supporto adeguato al territorio selezionato per lo sfruttamento, perché esistono poche realtà in grado di operare nel settore e dunque dispongono di un ampio potere contrattuale. Purtroppo scontiamo il depauperamento delle skills.

Rimane il nodo delle resistenze locali. Come si dovrebbe rispondere?

Con il climate mining, come dicevo. Se vogliamo fare una transizione verde servono materie prime critiche. Non possiamo pensare di elettrificare tutto e far funzionare l’intero sistema con fonti rinnovabili se ciò costa maggiore inquinamento fuori dai nostri confini. Non è etico. Inoltre estrarre e raffinare porta con sé gli oneri di ripristino, e oggi ci sono le tecnologie e le conoscenze per lasciare i siti oggetto di concessione migliori di quando sono stati affidati.

Gli altri Paesi europei si devono misurare con i nostri stessi problemi?

Sì e non solo quelli europei. Stati Uniti, Giappone, Canada, Australia. Insomma il mondo occidentale è un po’ tutto nella stessa situazione: risorse scarse, estrazioni lente e mancanza di un industria di raffinazione post estrazione.

Come si stanno muovendo gli altri Paesi occidentali?

La Francia ha mobilitato un miliardo di euro per un fondo di investimento che vada a caccia di materie prime critiche. Idem per gli Stati Uniti, anche se cercano molto la sponda atlantica. Credo che anche la Germania voglia istituire il proprio fondo. L’Italia, per quanto ne so, ritiene che l’Ue si debba muovere unitariamente. In questo senso, il Critical Raw Materials Act dovrebbe costituire una risposta pragmatica a un problema troppo grande per essere affrontato singolarmente. Si definiranno quali siano le materie strategiche, assieme a quali realtà sovvenzionare per far partire i processi di estrazione e raffinazione, abbattendo i tempi delle procedure di approvazione. Probabilmente la soluzione sarebbe un fondo d’investimento europeo.

Ci può dare un quadro del settore a livello internazionale?

C’è grande dinamismo al momento. Penso alla Mineral Security Partnership (l’iniziativa occidentale a guida Usa per rafforzare le catene del valore, ndr) o al Future Minerals Forum, un insieme di Paesi africani e mediorientali che vogliono creare un polo per l’estrazione e la lavorazione di materie prime critiche, utilizzando un meccanismo – se vogliamo – in stile Opec per creare un “cartello allargato” nel settore dei minerali. Nel 2022 i Paesi partecipanti si sono riuniti negli Emirati Arabi per la seconda volta; hanno capitali e accesso alla tecnologia, ora devono solo esplorare il proprio sottosuolo e organizzarsi.

E cosa pensa delle misure di reshoring dell’Inflation Reduction Act statunitense, che tanto spaventano i Paesi europei?

Non credo ci sia piena consapevolezza di quello che serve per raggiungere gli obiettivi di rinazionalizzazione (o friend-shoring) delle catene di produzione. Al momento, semplicemente, l’Occidente non dispone della potenza di fuoco per fare veicoli elettrici senza le batterie cinesi. Per questo si dovrà trovare un punto di incontro tra Ue e Usa, anche nel contesto della Minerals Security Partnership a cui l’Italia ha appena aderito. Si sta già cristallizzando un polo di Paesi che non hanno rapido accesso alle materie prime critiche, ma che sono intenzionati a rinsaldare le catene di produzione. Ora serve rafforzare una visione comunitaria.


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