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Perché il Green Deal Ue alimenta il caro-transizione. L’allarme di Torlizzi

Di Gianclaudio Torlizzi
Mining

Non fatevi ingannare dai ribassi temporanei: l’impennata dei prezzi delle commodities ha radici più profonde della guerra russa, sarà più strutturale e persistente di quanto si creda. E le supply chain rimangono troppo esposte alla volontà di terzi. Con questo discorso al parlamento Ue, il fondatore di T-Commodity spiega perché serve rimodulare il Green Deal per non soffocare l’industria europea nel nome della transizione ecologica

Riceviamo e pubblichiamo il discorso al Parlamento europeo (Commissione Commercio Internazionale e Commissione Mercato Interno) di Gianclaudio Torlizzi, fondatore di T-Commodity, autore di “Materia rara.Come la pandemia e il green deal hanno stravolto il mercato delle materie prime” e nuovo Consigliere del Ministro della difesa per l’analisi strategica dell’impatto dei mercati delle materie prime e dei materiali rari sulla supply chain e sul comparto industriale della Difesa.

È divenuta ormai assodata consuetudine indicare l’aggressione russa ai danni dell’Ucraina come il momento in cui gli equilibri di politica estera in vigore dal secondo dopoguerra del secolo scorso e in particolare il processo di globalizzazione mutano in maniera irreversibile. Certamente vi è una verità in questa interpretazione se si considera lo sfaldamento delle relazioni tra Europa e Federazione Russa e la creazione dell’asse Mosca-Pechino in chiave anti-occidentale.

Tuttavia, il mondo per come lo conoscevamo in realtà inizia a segnalare i primi smottamenti già nel 2016, quando l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama inaugura una politica protezionista contro l’import di acciaio prodotta in Cina, dando così il via a un lungo processo di decoupling che con l’avvento di Donald Trump compie un salto di qualità, almeno nei toni.

Ma è lo scoppio della pandemia a sancire il vero e proprio cambio di paradigma. La diffusione del virus infatti fa emergere con chiarezza la vulnerabilità in cui sono oramai incappate le economie occidentali, eccessivamente dipendenti dalle forniture asiatiche, come risultato di un’incontrollata azione di delocalizzazione che ha avuto la sua piena legittimazione nell’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio del 2001.

La necessità di rendere le economie autosufficienti si scontra tuttavia con l’accelerazione dei prezzi dell’energia e delle materie prime. La decisione da parte dei Governi di contrastare le spinte recessive sulle economie, derivanti dall’adozione delle politiche di contenimento del virus (misure di lockdown), si traduce in una vera e propria inondazione di liquidità che dà il via a un’accelerazione dei consumi, soprattutto di beni durevoli e tecnologici, che la condizione dell’offerta non è in grado di soddisfare a causa delle riduzioni in capacità produttiva a cui si assisteva fin dal 2016. Riduzioni, queste, che sono diretta conseguenza della fase ribassista dei prezzi delle materie prime in atto dal 2010/2012 da un lato, ma dall’altro anche dell’attuazione delle politiche Esg (di sostenibilità ambientale, sociale e di governance, ndr).

È in quest’ottica che va ricercata la ragione primaria dietro la nascita del ciclo rialzista delle commodities. Ciclo che raggiunge un primo apice tra il marzo e l’aprile 2022 quando l’aggressione russa dell’Ucraina induce le aziende manifatturiere a incrementare ulteriormente gli acquisti di materiali al fine di creare un cuscinetto di inventario, temendo nuovi shock sul lato dell’offerta. A esacerbare le tensioni sui mercati giunge inoltre l’azione di restrizione dei flussi di gas intrapresa da Mosca che alimentano la corsa dei prezzi dell’energia.

Davanti alla crescita incontrollata dell’inflazione, le banche centrali reagiscono, seppur in ritardo, producendo un’inversione a ‘U’ di politica monetaria al fine di proteggere lo standing finanziario delle valute. Al fine di contrastare l’azione di weaponization sulle materie prime da parte di Mosca, Washington in particolare contrappone l’azione di weaponization del dollaro americano.

A giudicare dal raffreddamento dei prezzi delle materie prime a cui si è assistito nella seconda metà del 2022 sembra che l’obiettivo della banca centrale Usa sia stato raggiunto. Obiettivo che nel caso dei beni energetici è stato reso possibile dalle alte temperature stagionali.

Tuttavia, è lecito ritenere come la discesa dei prezzi nel secondo semestre 2022 non rappresenti altro che una pausa all’interno di un superciclo rialzista delle materie prime e dell’energia. E questo non solo in ragione delle attese di riaccelerazione dell’economia cinese. Ma soprattutto in ragione del deficit derivante dall’implementazione delle politiche climatiche. Politiche che, ruotando esclusivamente sull’elettrificazione, comportano un forte aumento dei consumi di acciaio e metalli.

Stando alle stime di Bloomberg, saranno necessari metalli per un controvalore di 10 mila miliardi di dollari per garantire la transizione energetica entro il 2050. Metalli di cui però l’industria europea è sostanzialmente sprovvista. Per fare un esempio, il livello delle scorte dei metalli non ferrosi scambiati al London Metals Exchange veleggia sui livelli minimi record.

Il vulnus di natura strutturale ruota attorno al fatto che, non potendo contare su un’adeguata capacità di estrazione e raffinazione di minerali, sia Stati Uniti sia Europa rimarranno fortemente dipendenti dalle importazioni. Importazioni che nel caso specifico di alcuni minerali sono addirittura concentrate in un solo Paese: per fare un esempio, attualmente il 27% dell’offerta mondiale di rame proviene dal Cile. Il regime di “concentrazione produttiva” riguarda anche il litio se si considera che Australia (50%), Cile (20%) e Argentina (10%) ne controllano attualmente la produzione.

Al di fuori del litio, la fornitura mineraria di elementi critici è concentrata in Cina sia direttamente, come nel caso delle terre rare e della grafite, ma anche indirettamente. Con una quota di mercato superiore al 60%, la Repubblica Democratica del Congo (Rdc) domina la produzione di cobalto, seguita dall’Indonesia. Tuttavia, le società cinesi ora possiedono 15 delle 17 miniere di cobalto nella Rdc e controllano il 97% delle forniture indonesiane. Anche nel nichel, la Cina mantiene una posizione di leadership, incidendo circa per il 45% dell’offerta globale di miniere di nichel attraverso la sua proprietà delle operazioni in Indonesia.

Nel frattempo, la Cina continua a stoccare materia prima. Secondo le stime di JP Morgan, a oggi Pechino detiene il 93% delle scorte mondiali di rame e il 74% di quelle di alluminio.

Le criticità di un’eccessiva dipendenza dalla Cina non riguardano solo il lato estrazione e gli inventari: anche la bassa capacità di raffinazione dovrebbe rappresentare un elemento di forte preoccupazione per l’Occidente. La Cina è infatti il leader indiscusso nella raffinazione di una gamma di minerali, controllando l’85% della raffinazione delle terre rare. Mentre l’Australia è il principale estrattore di litio, il Paese ne esporta la maggior parte in Cina, che incide per oltre il 70% della capacità mondiale di raffinazione. L’80% del minerale di cobalto lascia il Congo per essere raffinato in Cina, mentre il 70% della capacità di nichel raffinato è di proprietà di società cinesi. Infine, quasi il 100% della grafite mondiale viene raffinata in Cina.

Questa condizione di leadership da parte di Pechino nella filiera dei metalli aumenta fortemente il rischio di future azioni di weaponization contro l’Occidente come forma di ritorsione contro le sanzioni che iniziano a essere applicate dall’Occidente.

In un contesto di accresciuta competizione geostrategica tra Ue e la Cina, mantenere i piani climatici varati nell’ormai lontano 2019 non farà altro che esercitare continui stress nel mercato delle materie prime. Il Green deal, infatti, rappresenta un driver rialzista dei prezzi delle commodities non solo perché comporta un forte aumento dei consumi di metalli necessari per accelerare il processo di elettrificazione ma anche perché disincentiva gli investimenti in capacità produttiva che saranno ancora necessari nei prossimi decenni.

È bene evidenziare, a tal proposito, come il Green deal europeo ruoti attorno al principio di imporre a imprese e cittadini il passaggio verso le fonti rinnovabili, rendendo le fonti fossili sempre più insostenibili economicamente. Un obiettivo questo perseguito attraverso la progressiva riduzione delle allocazioni gratuite di certificati di emissione di CO2 in favore dei settori energivori.

Proprio il raggiungimento del prezzo della CO2 intorno ai €100/tonnellata è una dei driver che contribuisce a mantenere il prezzo dell’elettricità in Francia, Germania e Italia sopra i €100/MWh, malgrado il forte calo del prezzo del gas naturale negli ultimi 6 mesi (determinato in larga misura dal caldo anomalo che ha investito l’Europa nel corso dell’inverno). Prezzo del gas che comunque, malgrado il forte calo dalla scorsa estate, veleggia attualmente a €50/MWh, cioè oltre il triplo della media registrata nel periodo 2015-2022 di €16/MWh.

È in quest’ottica che va letto l’annuncio del colosso chimico tedesco Basf di licenziare 2600 dipendenti, il ridimensionamento del progetto di gigafactory di Tesla in Germania e la decisione di Audi di insediare uno stabilimento produttivo di auto elettriche negli Usa: tutti segnali, questi, che evidenziano il rischio deindustrializzazione determinato dalle modalità con cui vengono perseguite le politiche climatiche europee.

In sostanza, rimodulare le politiche climatiche rappresenta un passaggio necessario, sia per affrancarsi da una pericolosa dipendenza su metalli e gas nei confronti di Pechino, sia per allentare la crisi inflazionistica.

In quest’ottica desta forte preoccupazione l’ampio differenziale inflazionistico sviluppatosi tra la Cina e l’Ue: appena il 2% contro l’8,6% secondo l’ultima lettura. Un gap di competitività che Pechino è stata in grado di costruire attraverso il massiccio utilizzo del carbone come fonte energetica. Gli enormi sforzi che oggi dunque vengono richiesti a imprese e famiglie europee rischiano di finire completamente vanificati dalla politica energetica cinese.

Davanti a una minaccia tanto grave sarebbe tuttavia ingenuo pensare di difendersi utilizzando solo la leva dei dazi e lo strumento della Carbon Border Adjustment Mechanism (Cbam). Il protezionismo dei settori a monte serve infatti a poco se sparisce il consumo a valle! In quest’ottica è imperativo adottare un approccio meno ideologico e più pragmatico nei confronti delle politiche climatiche, allentando gli stringenti target di decarbonizzazione al fine di incentivare il più possibile l’offerta e gli investimenti in infrastrutture energetiche (rinnovabili e fossili) e calmierare così le spinte inflazionistiche. È in ballo il futuro dell’Europa.


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