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Tunisia, il Piano Mattei può funzionare. Melcangi spiega perché

“La possibilità di ricadute sulla Libia sono molto elevate, bisogna essere pronti. Se il capofila può essere l’Italia, con l’Ue, ciò significa che va sollecitata Washington a sostenere economicamente la Tunisia, soprattutto se tarderanno i prestiti del Fmi”. Conversazione Alessia Melcangi, docente e analista dello Iai

La Tunisia rappresenta solo la punta dell’iceberg, è l’intera regione Nordafricana e del Sahel che resta in un mare di profonda instabilità. In questo senso il Piano Mattei può funzionare, perché visto come un punto di svolta rispetto alle emergenze che molti Paesi stanno attraversando.

Così Alessia Melcangi, associate professor of History and Politics of North Africa and the Middle East alla Sapienza e ricercatrice dell’Ispi, analizza con Formiche.net il quadro geopolitico e sociale in cui si trova la Tunisia, diventata nuovo centro di crisi (dopo la Libia) e potenziale trampolino di lancio per le nuove ondate migratorie subsahariane.

Come fermare la possibile escalation degli arrivi dalla Tunisia? È sufficiente il prestito del Fondo monetario oppure, come osservato negli ultimi giorni dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani, vanno sostenute anche le forze di sicurezza in loco?

Ottenere il prestito è una condizione fondamentale perché la situazione economica attuale è drammatica: parliamo della peggiore crisi finanziaria dall’inizio della cosiddetta primavera araba del 2011, un’inflazione in crescita (più del 10%), un’alta disoccupazione (oltre il 15% e con un dato giovanile intorno al 38%), l’irreperibilità di beni di prima necessità e carenza diffusa di carburante. Quindi una condizione che sicuramente pone un ostacolo forte anche alla governance stessa. Il Presidente Saied gode ancora di un forte supporto popolare per questa sua lotta contro la corruzione e contro il sistema considerato assolutamente incapace di gestire il sistema politico-amministrativo della Tunisia. La cartina di tornasole finale è la condizione economica: questo appoggio popolare resterà in piedi finché reggerà l’economia, ma se dovesse crollare tutto sarebbe messo in discussione. Infine, riprendendo le affermazioni del ministro Tajani, è necessario un intervento articolato a sostegno delle varie strutture dello Stato.

Le pressioni italiane sul Fmi avranno un effetto?

Per sbloccare i 1,9 miliardi di dollari è indispensabile che la leadership tunisina proceda con le riforme strutturali per finalizzare il programma, così come fatto in precedenza dall’Egitto. Per esempio l’Egitto, dopo essersi assicurato il sostegno finanziario dal Golfo, ha confermato l’impegno nell’implementazione delle riforme strutturali richieste dal Fmi e quindi ne ha sbloccato il pacchetto di aiuti. In Tunisia i colloqui sono in stallo da mesi anche per la reticenza del presidente ad accettare le richieste imposte dall’Istituto internazionale. Ma, ribadisco, il pacchetto di aiuti del Fmi è fondamentale e gli Stati Uniti e le istituzioni europee chiedono a gran voce che si possa arrivare ad un accordo il prima possibile.

I segnali dal governo di Tunisi in che direzione vanno?

Le ultime dichiarazioni di Saied sulle ondate migratorie di subsahariani e su questo pseudo complotto demografico non vanno nella direzione più positiva: la Banca mondiale ha sospeso il finanziamento e il Fondo monetario internazionale è rimasto decisamente sconcertato da queste parole. Per cui accanto all’aspetto economico, che ha sicuramente una sua valenza sulla possibilità di ridurre le ondate migratorie, vedo un altro fattore che va considerato: l’origine subsahariana delle migrazioni, il che deve aprire anche ad altre considerazioni.

Ovvero?

La Tunisia, ancora di più, è diventata la testa di ponte per le ondate, ancora Paese di transito di flussi dall’Africa Sub-Sahariana e a causa di ciò il problema cresce di intensità. Un ruolo maggiore in questo senso credo debbano svolgerlo Italia ed Europa affinché possano diventare i primi interlocutori per aprire nuove prospettive di ripresa e, dunque, di agire sui flussi migratori. È necessaria una mobilitazione immediata economica per il Nord Africa da parte dell’Europa perché la destabilizzazione della Tunisia si riverbera sull’intera area.

Il rischio che corre l’Ue è anche quello di lasciare la Tunisia alla Fratellanza Musulmana?

Lo escludo e lo dimostra la storia del Paese: la Fratellanza Musulmana, che si configura con il partito Ennahda, all’indomani delle primavere arabe ha ritrovato un posto dopo anni di repressione da parte di Ben Alì e prima ancora di Bourghiba. Ha quindi provato a ricollocarsi, offrendo delle aspettative di stabilità economica, ma il fallimento di questo processo è bene impresso nelle menti dei tunisini. Non è riuscita a rispondere nemmeno agli obiettivi che il movimento si era posto: ora Saied è diventato il portavoce di questo malcontento. Fin da subito l’ha dichiarato come carta d’identità iniziale del suo mandato così come la sua evidente avversione contro il partito islamista. Gli scontri politici in Parlamento tra il presidente e il portavoce dell’Assemblea Ghannousci, Leader di al-Nahda, degli ultimi anni e le recenti ondate di arresto dimostrano l’avversione del governo in carica contro il partito islamista.

Una Tunisia destabilizzata quali effetti potrà avere su una area già zavorrata dal caso libico?

La possibilità di ricadute sulla Libia sono molto elevate, bisogna essere pronti. Nell’ottica di un aiuto coordinato a livello europeo, se il capofila può essere l’Italia all’interno dell’Ue, ciò significa che va sollecitata Washington a sostenere economicamente la Tunisia, soprattutto se tarderanno i prestiti del Fmi: ciò anche al fine di spingere possibilmente il Presidente Saied a essere più inclusivo e ad allargare la base di consenso, sviluppare un piano regionale più ampio di riconciliazione politica, applicazione dei diritti umani, cooperazione economica e sviluppo socio-economico. Tutte questioni che la sua ultima virata autoritaria mettono decisamente in discussione.

Con quale punto di caduta?

Riproporre un dialogo nazionale, soluzione che più volte storicamente ha traghettato il Paese verso risultati immediati e ha consolidato il percorso democratico che ha fatto del paese dei Gelsomini uno dei pochi esperimenti virtuosi post-rivolte del 2011. Ma la Tunisia rappresenta solo la punta dell’iceberg, è l’intera regione Nordafricana e del Sahel che resta in un mare di profonda instabilità.

Il Piano Mattei può candidarsi a essere quell’intervento strategico per l’Africa che è mancato dalla caduta di Gheddafi in poi?

Sicuramente è un progetto molto ambizioso, in quanto trova anche l’appoggio di realtà imprenditoriali importanti già presenti in loco, penso al ruolo energetico svolto da Eni sia in Libia e in generale in tutto il versante che va fino all’Egitto. In questo senso il Piano Mattei può funzionare perché visto come un punto di svolta rispetto alle emergenze che molti Paesi stanno attraversando. Alla base della questione migratoria tunisina c’è proprio una non programmazione politica del passato, ovvero il fallimento di alcuni partenariati euromediterranei che non hanno portato ad effettive forme di cooperazione concreta. Non dimentichiamo che la Tunisia è interessata al progetto di cavi sottomarini elettrici che rappresenta un elemento significativo per l’Italia: Roma resta il principale partner imprenditoriale di Tunisi. Per cui l’Italia si candida sicuramente con il Piano Mattei a diventare un punto di riferimento importante per la Tunisia e per i Paesi del Nord Africa.

In questo quadro quanta responsabilità c’è stata da parte della governance europea rispetto a dinamiche africane sottovalutate, come l’ultra invasività cinese sui fossili e come l’azione della Wagner?

Per molto tempo l’Europa non si è riuscita a porre come attore geopolitico, perché dilaniata al suo interno da rivalità e anche da una diversa percezione dei rischi e delle opportunità. Lo dimostra il caso libico, dove si sono susseguite una serie azioni che non hanno prodotto risultati. Tale mancanza di visione geopolitica ha sicuramente inficiato l’azione concreta, per cui riuscire in parte a far ritrovare all’Europa una certa unità di intenti e di prospettiva per affrontare questa emergenza, diventa fondamentale. Ma al contempo diventa anche un banco di prova per capire se questa unità potrà andare al di là dei problemi migratori dell’oggi e affrontare i problemi strutturali.



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