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Stretta Usa sulla polizia segreta cinese. E l’Italia?

L’Fbi ha arrestato due sospetti “agenti” di Pechino, accusati di aver aperto e gestito a Manhattan un distaccamento illegale del ministero della Pubblica sicurezza. Si tratta di un ufficio simile agli undici individuati nel nostro Paese

Lunedì l’Fbi ha arrestato due sospetti “agenti” cinesi accusati di aver aperto e gestito una stazione di polizia illegale nella Chinatown di Manhattan, New York, per conto del ministero cinese di Pubblica sicurezza. L’ufficio è chiuso dalle autorità in autunno. I due soggetti sono Lu Jianwang e Chen Jinping, entrambi cittadini americani., I due avevano tentato di distruggere le prove rimuovendo le chat sugli smartphone durante una “pausa” in bagno in occasione di una visita delle autorità. Sono stati rilasciati su cauzione rispettivamente di 250.000 dollari e 400.00 dolavi, con il divieto di avvicinarsi di mezzo miglio alle rappresentanze diplomatiche di Pechino in città o di comunicare con gli altri soggetti accusati di cospirazione.

Infatti, il dipartimento di Giustizia ha accusato 34 funzionari della polizia nazionale cinese, coinvolti nel cosiddetto “912 Special Project Working Group”, di aver minacciato cittadini cinesi negli Stati Uniti critici verso il governo di Pechino attivando inoltre una macchina della propaganda sulla politica estera statunitense e sulle proteste razziali dopo l’assassinio di George Floyd, sui diritti umani a Hong Kong, sull’invasione russa dell’Ucraina e sul Covid-19.

“La Repubblica popolare cinese, attraverso il suo apparato di sicurezza repressivo, ha stabilito una presenza fisica segreta nella città di New York per monitorare e intimidire i dissidenti e coloro che criticano il suo governo”, ha dichiarato in un comunicato l’assistente procuratore generale Matthew Olsen. Le azioni della Cina “vanno ben oltre i limiti di una condotta accettabile da parte di uno Stato nazionale. Difenderemo con determinazione le libertà di tutti coloro che vivono nel nostro Paese dalla minaccia di una repressione autoritaria”, ha aggiunto.

In un altro caso, i procuratori federali sostengono che un dirigente di una società di teleconferenze (individuata dalla CNN in Zoom) abbia interrotto un incontro sulla piattaforma che commemorava il Massacro di Piazza Tienanmen, su ordine del governo cinese. Xinjiang “Julien” Jin, dirigente di Zoom, è stato in passato accusato dal dipartimento di Giustizia. La nuova denuncia aggiunge accuse contro altre nove persone, tra cui sei funzionari del ministero della Pubblica sicurezza e due funzionari della Cyberspace Administration of China.

La Cina insiste che l’ufficio di New York e altri simili in tutto il mondo sono gestiti da volontari e non sono collegati alla polizia. Ma le condotte dei due soggetti arrestati a New York suggeriscono il contrario. Quelle di Lu, in particolare: nel 2015, durante la visita del presidente cinese Xi Jinping negli Stati Uniti, ha partecipato alle contro-proteste a Washington contro i membri di una religione vietata da Pechino ed è stato premiato con una targa dal ministero della Pubblica sicurezza; nel 2018 è stato coinvolto nei tentativi di far tornare in Cina un presunto fuggitivo che ha riferito di essere stato ripetutamente minacciato (un fenomeno chiamato come rimpatrio forzato); nel 2022 un funzionario del ministero della Pubblica sicurezza gli ha chiesto assistenza per individuare un attivista pro-democrazia che vive in California.

Un’inchiesta internazionale dell’organizzazione per i diritti umani Safeguard Defenders ha rivelato nei mesi scorsi la presenza di questi “uffici” anche in Italia, che sarebbe al primo posto per il numero di questi presidi sul suo territorio. Nella Penisola se ne troverebbero infatti 11. Istituite formalmente come centri di consulenza per assistere i connazionali all’estero nel rinnovo delle patenti o altre pratiche affini durante la pandemia di Covid-19, le sedi, sostiene Safeguard Defenders, sarebbero piuttosto utilizzate dalla Cina per sorvegliare, perseguire e in alcuni casi rimpatriare gli esuli e i dissidenti, avvalendosi di accordi bilaterali in materia di sicurezza siglati con i governi ospitanti.

A gennaio Matteo Piantedosi, ministro dell’Interno, aveva spiegato che era “in corso un monitoraggio di massima attenzione” con il comparto intelligence e non aveva escluso “provvedimenti sanzionatori in caso d’illegalità”. Quelle parole rappresentano l’ultima dichiarazione in merito da parte del governo e della Presidenza del Consiglio, come scrivevamo a inizio di questo mese.

Eppure, la situazione appare delicata anche per l’Italia, e non soltanto per il primato di “uffici” sul territorio o per il carattere transnazionale di queste attività confermata dai documenti della giustizia americana. Basti pensare alla storia della manager cinese, ricercata per presunti reati economici, a cui la Corte Suprema di Cassazione a inizio marzo ha dato ragione annullando la sentenza della Corte d’appello di Ancona che aveva autorizzato l’estradizione verso la Cina. Secondo quanto dichiarato dall’organizzazione per i diritti umani Safeguard Defenders, il suo calvario è stato ulteriormente aggravato dalle forti pressioni esercitate dalla Cina sui suoi familiari in patria nel tentativo di “convincerla a tornare” negli anni precedenti al suo arresto in Italia. Tra il giugno e il dicembre 2021, la polizia cinese ha trattenuto, immotivatamente e senza neppure informare i parenti, il fratello per sei mesi e sottoposto a “trattamenti inumani e degradanti”.



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