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Nucleare, così l’Italia può tornare in campo. La ricetta di Ripani (Infn)

Dalla politica è arrivato un forte impulso a riconsiderare il ruolo dell’atomo nel mix energetico italiano. E l’industria italiana è già pronta alla sfida. In questa intervista, il direttore di ricerca dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare disegna una roadmap per un futuro low carbon ed economicamente sostenibile, ricordando il lavoro e l’impatto di Umberto Minopoli

Due avvenimenti recenti hanno sconvolto la normalità di chi si occupa di nucleare in Italia. Il primo è stata la scomparsa di Umberto Minopoli, caposaldo del settore in veste di Presidente dell’Associazione Italiana Nucleare, ricordato con affetto da industriali, politici e giornalisti (anche) per la sua attività di patrocinio dell’atomo. Il secondo, pochi giorni dopo, sono state due mozioni della Camera che hanno esortato il governo Meloni – a sua volta ricettivo sul tema – a valutare come reinserire il nucleare nel mix energetico italiano.

Le condizioni per una rinascita del nucleare civile in Italia, anche grazie alla strenua attività di persone come Minopoli, sembrano sempre più solide. L’impellenza di combattere il cambiamento climatico con fonti low carbon e la volatilità sul fronte del gas, nostra prima fonte di energia, hanno riacceso l’interesse per questa tecnologia. La quale, a sua volta, sta attraversando uno stadio di evoluzione e affinamento che ne aumenta l’attrattività. Così Formiche.net ha raggiunto Marco Ripani, dirigente di ricerca presso l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e vicepresidente dell’Ain, per fotografare il momento.

Dottor Ripani, cosa ci lascia Minopoli?

La sua perdita inaspettata ci ha colpito nel profondo. Sono all’Ain da pochi anni ma ho avuto modo di apprezzare la sua capacità di spaziare dalla tecnica all’industria e alle possibilità delle aziende italiane, unita alla sua profonda conoscenza del mondo politico. Sapeva tenere insieme questi mondi e la ricerca, facendo in modo che dialogassero, tenendo il punto sui dati di fatto e le possibilità concrete al di là della propaganda e delle fumosità emerse dal dibattito politico, che spesso può essere fuorviante rispetto alle esigenze concrete del settore. Penso al suo ultimo libro (Nucleare. Ritorno al futuro, Guerini e Associati), tra i suoi ultimi sforzi per ravvivare questa discussione.

Marco Ripani

Si direbbe che abbiano dato frutto: come commenta il sì del Parlamento sul riconsiderare il nucleare?

Alcune forze politiche sono consapevoli del fatto che il nostro Paese – come altri, del resto – affronta il problema della sicurezza energetica. I partiti dietro alle mozioni pensavano già che il nucleare fosse necessario nel mix energetico italiano; la riflessione si è fatta più intensa con gli sviluppi geopolitici degli ultimi due anni, tra cui l’aumento vertiginoso del prezzo del gas in relazione all’invasione russa dell’Ucraina. Riposavamo, per così dire, sugli allori del gas russo a buon mercato, e questi avvenimenti hanno causato un brusco risveglio. Dunque le forze politiche che consideravano il nucleare come tecnologia utile sono state spinte a prendere una posizione più forte.

La discussione, naturalmente, si colloca nel contesto della transizione energetica e della necessità di decarbonizzare. Quale ruolo per l’atomo?

Molti ritengono che si possa puntare unicamente sulle rinnovabili. Tuttavia, il dibattito in corso ha convinto una parte di opinione pubblica del fatto che il nucleare sia una tecnologia necessaria per affrontare seriamente il tema. Segnalo gli studi guidati da Giuseppe Zollino sul costruire un mix energetico che punti al famoso net zero al 2050; i suoi numeri sono stati ripresi nelle mozioni approvate in Parlamento ed evidenziano l’enorme aumento di potenza installata e di apparati di accumulo dell’energia, nonché la necessità di rivoluzionare le reti di trasmissione in modo da affidarsi solo alle rinnovabili. Confindustria e RSE hanno stimato che un piano senza nucleare ispirato agli obiettivi europei Fit for 55 non elimina i combustibili fossili e prevede investimenti nell’ordine di 1.100 miliardi da qui al 2030. Inoltre, in Ue vediamo che i Paesi più virtuosi in termini di CO2 emessa per kWh prodotto sono Francia e Svezia, che hanno il nucleare, mentre Germania e Italia, che hanno già investito molto sulle rinnovabili, fanno decisamente peggio.

In risposta alle mozioni parlamentari, il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin ha parlato di cooperazione con i partner europei. E i rappresentanti del governo già partecipano, seppur come osservatori, alle riunioni dell’“alleanza nucleare” a trazione francese.

È un segnale molto importante. Il ministro non aveva ritenuto di partecipare in maniera ufficiale perché voleva un chiaro mandato dal Parlamento. Credo che queste mozioni lo siano. Certamente il dibattito è acceso e la discussione rimane molto conflittuale, anche in Europa, dove alcuni Paesi come la Germania sono chiaramente schierati contro e altri sono nettamente a favore. La discussione all’interno della Commissione è molto difficile; lo si è visto sulla tassonomia, che indirizza gli investimenti “verdi”, dove alla fine sono stati inseriti nucleare e gas ma continuano i tentativi di rimuoverli.

Il peso politico dell’Italia può rafforzare il fronte pro-nucleare in Ue?

Potrebbe. Ma l’Italia al momento non è forte in questo senso. Per dire: non abbiamo ancora stabilito un sito per il deposito dei rifiuti nucleari (anche se non è necessario per ripartire con gli impianti, le cose possono andare in parallelo). Completare questo iter dimostrerebbe che abbiamo ripreso in mano la capacità di programmare e gestire impianti di tipo nucleare. Tuttavia, trent’anni di denuclearizzazione e un dibattito interno lacerante indeboliscono la nostra posizione internazionale. A ogni modo, l’Italia può certamente rientrare in alleanze che consentirebbero di ravvivare la rete di industria e competenze. E può partecipare a progetti esteri. Non si deve pensare solo al fatto di ripartire con un programma nucleare nazionale, cosa che andrebbe fatta in fretta: come sistema-Paese abbiamo la possibilità di esplorare il terreno e stringere accordi industriali in modo da sfruttare l’innovazione, gli aggiornamenti decisi e implementati in altri Paesi europei.

L’industria nucleare italiana sarebbe pronta alla sfida?

Non siamo mai usciti dalle reti di competenze europee e siamo perfettamente in grado di competere anche sul piano internazionale. Oggi i nostri ricercatori e le nostre aziende sono parte di molti consorzi vincitori di bandi Euratom e partecipano al partenariato di ricerca sui piccoli reattori modulari. In sostanza, abbiamo molte carte da giocare e possiamo giocare molto bene. Lo dimostra l’assoluto protagonismo delle nostre aziende nel recente accordo con la francese Edf, che peraltro si è appoggiata ai fornitori di componenti italiani per la manutenzione della sua flotta di reattori. Se poi la politica ci aiuta – magari supportando la ricerca e l’industria con dei provvedimenti ad hoc che facilitino questo tipo di accordi – possiamo tornare agilmente in campo; se non con impianti nel nostro Paese, almeno con progetti all’estero.

Che forma prenderebbe un nuovo piano nucleare italiano?

Si parte da due decisioni politiche. Primo, la quota di energia nucleare che si vuole inserire nel mix energetico. Secondo, scegliere se adoperare i reattori di grossa taglia o puntare sullo sviluppo di quelli piccoli e modulari, che richiedono meno capitali e meno tempo. I primi (di terza generazione avanzata) esistono già, i secondi sono in via di progettazione, e le versioni più facili da mettere a terra sono quelle ispirate ai “fratelli maggiori”, da cui si può mutuare la tecnologia.

Può darci un’idea dei tempi?

Spesso si portano come esempi in negativo gli ultimi reattori messi a punto da Francia e Finlandia, che hanno sofferto ritardi e costi maggiori. Quelli, però, sono i primi esemplari di una classe nuova e hanno scontato una serie di problemi tra venditori e appaltatori. Complicazioni del genere non sono la norma. Basti guardare agli Emirati Arabi, che hanno deciso nel 2012 di costruire la centrale nucleare di Barakah. Il primo reattore (da 1,400 megawatt) è stato completato nel 2017, in soli cinque anni. Oggi sono funzionanti tre reattori su quattro, e il quarto sta entrando in funzione. E il fatto che gli Emirati fossero totalmente novizi in fatto di nucleare (hanno fatto grande ricorso all’Agenzia internazionale dell’energia atomica) dimostra che se ci sono le condizioni giuste è possibile farlo in tempi rapidi.

E da noi come si potrebbero affrontare l’opposizione pubblica e il fenomeno Nimby (not in my backyard)?

La sindrome Nimby è un problema trasversale. Ha già impattato termovalorizzatori, rigassificatori, trivelle, gasdotti come il Tap – quello che poi ci ha salvato nel periodo di crisi del gas. In Italia, forse più che altrove, c’è un grande scetticismo, frutto in parte della diffidenza verso le autorità politiche e tecniche e la sfiducia nelle informazioni che forniscono. Ma ci sono esempi molto positivi altrove in Europa, in Paesi dove sono stati avviati dei percorsi di comunicazione con il pubblico. Negli anni Ottanta la Svezia si è accorta che l’autorità che gestiva i rifiuti aveva un approccio troppo tecnico; così ha cambiato il modo di comunicare e oggi è in procinto di aprire uno stoccaggio sotterraneo all’avanguardia. È famoso anche il caso del deposito di superficie nella regione dello Champagne, in Francia, dove gli agricoltori continuano a produrre dell’ottimo vino e i sindaci sono i primi sponsor di un’opera importante per l’economia locale. Insomma, è possibile aprire un dibattito col pubblico che permetta di chiarire le questioni e creare fiducia verso chi deve costruire e gestire. Dobbiamo semplificare e trasmettere conoscenza, senza rinunciare alla precisione, e prevedere un sistema di compensazione economica per i luoghi che potrebbero ospitare le nuove centrali.


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