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Chip, nella competizione globale è guerra sui talenti

Non solo materiali e software: la rincorsa globale sui chip passa da ingegneri e personale qualificato. Uno sguardo agli Usa dimostra quanto sia importante assicurare un bacino di competenze, a partire da sinergie tra pubblico e privato

Nel corso degli ultimi due anni abbiamo assistito a una penuria di microchip che ha impattato diversi settori dell’economia globale, e che ha avuto diverse concause. Lo spettro dell’invasione di Taiwan da parte della Repubblica Popolare Cinese rende lo scenario per l’industria globale ancor più fosco, mentre la competizione tecnologica tra Washington e Pechino sta già incrinando la natura globalizzata della supply chain.

Se queste dinamiche hanno attirato l’attenzione di media e policymakers, poca attenzione – soprattutto dai primi – è stata riservata a coloro che operano concretamente per il funzionamento dell’intera catena del valore. Ingegneri e tecnici specializzati, infatti, diventeranno – al pari di equipaggiamento e materiali critici per la fabbricazione dei semiconduttori – sempre più oggetto della competizione tra Stati Uniti, Cina, Unione Europea, Corea del Sud e Giappone.

Perché la corsa a ricostruire la filiera in hub regionali su design, manifattura e R&S sarà sostanzialmente uno spreco di denaro pubblico se, al contempo, non verrà garantita una base di conoscenze, talenti che possano operare le nuove fonderie e sviluppare software avanzati per il design sempre più complesso dei chip. L’industria dei semiconduttori globale, d’altronde, è destinata a valere oltre 1 trilione di dollari entro il 2030, dai circa 600 miliardi di oggi. Una crescita impetuosa che potrebbe trainare con sé problemi di disponibilità di ingegneri e operatori specializzati: “Dobbiamo convincere più studenti di avvicinarsi, e considerare di prepararsi ad una carriera nell’industria dei chip”, ha ribadito Mark Lundstrom, professore di Ingegneria elettrica ed informatica della Purdue University nel corso di un panel organizzato dall’ateneo ad aprile.

Una forza lavoro qualificata che dovrà necessariamente formarsi in università con corsi dedicati e continuamente al passo della frontiera tecnologica – che ora gravita intorno ai due poli: negli Stati Uniti per il design (l’appeal dell’ecosistema innovativo a stelle e strisce, insieme alla leadership delle sue università, è stato un elemento fondamentale) e a Taiwan per la fabbricazione.

Negli Usa, infatti, il Chips and Science Act ha indotto decine di miliardi di investimenti nel settore, con l’obiettivo di rafforzare lo share manifatturiero americano (sceso dal 40% del 1990 al 12% del 2022). Ben 13,2 miliardi di dollari sono previsti proprio per la ricerca e sviluppo e il training di personale. Le aziende americane, asiatiche ed europee hanno risposto all’appello della Casa Bianca e del Congresso: oltre 50 nuovi progetti (da più di 200 miliardi di dollari) lungo la filiera sono stati annunciati nel paese dall’introduzione della misura, con un impatto previsto di 44.000 nuovi posti di lavoro secondo i dati raccolti dalla Semiconductor Industry Association (Sia).

Tuttavia, secondo un rapporto di Deloitte del novembre 2022, l’industria statunitense dei semiconduttori dovrà far fronte a una carenza di circa 70.000-90.000 lavoratori nei prossimi anni. McKinsey, invece, prevede una carenza ancor più pronunciata, di circa 300.000 ingegneri e 90.000 tecnici specializzati entro il 2030. Ad esemplificare quanto il problema sia già strutturale, e strategico se consideriamo l’importanza che i chip rivestono in molti dei settori critici (come l’IA, il 5G e le applicazioni militari, il cui peso è evidente nello scontro aperto tra Usa e Cina – il National Institute of Standards and Technology e altre agenzie statunitensi stanno collaborando con produttori di chip come Intel e Ibm per promuovere la forza lavoro a livello nazionale.), è l’investimento di Tsmc con l’apertura di una nuova fonderia in Arizona, a Phoenix, che si aggiungerà alla prima annunciata nel 2020 (prima del Chips Act).

Con 40 miliardi di dollari di capitale investito, la creatura di Morris Chang – che vede la corte di Washington e dell’Europa come un segnale della sua ormai centralità tecno-industriale, oltre al peso politico per Taiwan – prevede che i due siti creeranno 4,500 posti di lavoro, centinaia dei quali verranno letteralmente occupati da ingegneri trasferiti dall’isola: non solo Tsmc porterà con sé tecnologie e processi industriali/manageriali tra i più avanzati, ma fornirà agli Usa proprio quegli operatori in assenza dei quali le fonderie sarebbero autentiche ‘cattedrali nel deserto’. Quel know-how incrementale che nessun disegno di legge può sperare di ricreare dal nulla, ma che si plasma con la sintesi tra macchina e uomo. E sui cui Taiwan guarda già con crescente gelosia e preoccupazione.

“Se non investiamo nella forza lavoro manifatturiera americana, non importa quanto spendiamo. Non avremo successo” ha tuonato la segretaria al Dipartimento del Commercio, Gina Raimondo, in un discorso alla Georgetown University a febbraio 2023. Lo stesso successo di Tsmc e dell’ecosistema taiwanese è stato costruito, nel tempo, su una strategia a lungo termine per garantire competenze altamente specializzate al minor costo sul mercato. Un risultato ottenuto avvicinando la domanda (l’industria) e l’offerta (le università) per sviluppare programmi sinergici. La creazione del National Semiconductor Technology Center (Nstc), nel contesto delle iniziative del Chips Act, è tra le altre cose volto a rafforzare le sinergie tra accademia e industria, per cercare di ‘replicare’ il modello di Taiwan.

Il sistema universitario statunitense, spinto dal governo federale, sta cercando di recuperare il terreno perduto. Infatti, la percentuale di studenti americani che si laureano in ingegneria elettrica, formazione essenziale per entrare nel settore dei semiconduttori, è diminuita significativamente negli ultimi due decenni, secondo un report della Information Technology and Innovation Foundation (Itif). Un declino che probabilmente si spiega anche per il modello che la Silicon Valley ha spinto in oltre tre decenni di globalizzazione: maggior enfasi su start up innovative nel software, trainate dai venture capitalists, mentre le richieste di competenze ingegneristiche hardware – tra cui, appunto, quelli relativi alla fabbricazione – si sono concentrati geograficamente nell’Asia-Pacifico. Un trend che ha favorito un ingresso di talenti stranieri (soprattutto da India e Cina).

L’immigrazione, infatti, è un tema cruciale in questo settore – e rischia di diventare un problema qualora le politiche sui visti diventassero più stringenti per questioni legate alla sicurezza nazionale. L’istruzione scientifica, tecnologica, ingegneristica e matematica (Stem) negli Stati Uniti è in declino dagli anni ’80, proprio per il progressivo offshoring della manifattura high-tech. Un rapporto del Center for Strategic and International Studies (Csis) ha attribuito il divario degli Stati Uniti in queste materie ai costi e ai tempi elevati per il conseguimento di una laurea, alla mancanza di accesso ai corsi di scuola superiore necessari e alla carenza di insegnanti qualificati in queste materie. La tendenza a rivolgersi al talento estero, contando sull’attrattività del modello americano, ha portato i settori dell’economia legati all’alta tecnologia ad assicurarsi un’amplissima fetta dei visti (65.000 all’anno circa).

I grandi chipmakers, nel frattempo, stanno sgomitando per siglare partnership con le università nel tentativo di reclutare i loro futuri ingegneri. Intel ha avviato una partnership con la Ohio State University, TSMC di Taiwan, che ha bisogno di lavoratori per diverse fabbriche che sta costruendo in Arizona, ha fatto ingenti donazioni alla Arizona State University, Global Foundries ha stabilito una partnership con il Georgia Institute of Technology, mentre Micron ha riunito più di venti università – tra cui Harvard e il Mit – nel Northeast University Semiconductor Network.

È significativo che questo sforzo sia stato un dossier sentito e discusso durante la riunione del G7. La Purdue University, ateneo storicamente legato al mondo dei chip, sta collaborando con Micron, Tokyo Electron e altre istituzioni educative negli Stati Uniti e in Giappone per creare la rete di ricerca “Upwards”. L’accordo è stato firmato alla presenza, tra gli altri, del Segretario di Stato americano Antony Blinken, del Ministro giapponese per l’Istruzione, la Cultura, lo Sport, la Scienza e la Tecnologia Keiko Nagaoka e dell’Ambasciatore americano in Giappone Rahm Emanuel.

Il dilemma che affligge gli Usa è altrettanto grave in Europa, soprattutto nel Regno Unito. L’Institute of Physics e la Royal Academy of Engineering ha avvertito in un report a marzo che la carenza di competenze a tutti i livelli – dalla fisica in età scolare all’ingegneria post-laurea – rappresenta una seria minaccia per lo sviluppo di un’industria britannica dei semiconduttori competitiva a livello globale.

Secondo un’analisi di Kearney, i risultati mostrano che il Giappone e l’Europa sono le regioni che più probabilmente soffriranno della carenza di talenti. Mentre si prevede che il mercato complessivo dei semiconduttori crescerà fino al 2030, queste aree potrebbero perdere dal 50 al 60% della crescita potenziale dei ricavi a causa della mancanza di lavoratori qualificati. Proprio per scongiurare un tale scenario, l’annuncio di Semi Europe (la costola continentale dell’associazione che riunisce gli stakeholders dell’industria globale dei chip) di un’alleanza universitaria pan-europea – e che include centri di ricerca e chipmakers del calibro di Infineon – denominata European Chips Skills Academy. Questa iniziativa si integrerà con gli auspici dell’European Chips Act, a supporto dell’industria microelettronica europea e dei suoi punti di forza.

Nell’Asia-Pacifico, contando su di una filiera consolidata e di politiche a supporto decennali, Samsung ha avviato una partnership con quattro importanti università della Corea del Sud, fornendo programmi di studio su misura per formare gli studenti in materia di R&S e produzione di semiconduttori. Il governo di Taiwan, invece, sta collaborando con le aziende produttrici di chip per investire 300 milioni di dollari in scuole specializzate in chip all’interno delle migliori università per formare la prossima generazione di ingegneri dei semiconduttori.

In conclusione, con l’aumento delle capacità produttive – con 120 progetti in espansione e in costruzione annunciati solo nel segmento foundry – la “guerra” sui talenti, più silenziosa e meno sensazionalistica rispetto a quella visibile su macchinari e materiali, è destinata ad essere altrettanto decisiva.

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