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Il vero obiettivo di Prigozhin (e le conseguenze per Putin) nell’analisi di Pellicciari

Quella di Prigozhin non è stata una ribellione quanto una vera e propria exit-strategy per mettersi in salvo da un’imminente azione dei militari nei suoi confronti. Ma con lo scioglimento di Wagner viene meno un prezioso asset che è stato a disposizione diretta della leadership non-militare del Cremlino. Igor Pellicciari, ordinario di Storia delle Istituzioni e Relazioni Internazionali all’Università di Urbino, traccia le conseguenze del (non) golpe in Russia

Il privilegio che offre Formiche di scrivere della rivolta di Evgenij Prigozhin a una settimana di distanza dai fatti, mette al riparo dai rischi dei (di nuovo, troppi) commenti a caldo che hanno rincorso in affanno l’ennesimo evento russo non previsto.

Analisti in ansia da prestazione hanno prodotto azzardati pronostici internazionali prima ancora che diagnosi dei fatti accaduti e del loro significato, al netto delle narrative di guerra contrapposte.

Più che in chiave geo-politica (lettura utile, ma oramai abusata) l’intera vicenda va ricondotta ad una dimensione politica interna russa che parte da ben prima della guerra in Ucraina.

Vista da questa prospettiva, la rivolta di Prigozhin ha ricordato l’invasione militare russa del 24 Febbraio 2022.

Un evento non sorprendente (perché considerato possibile) ma che ha colto di sorpresa (perché considerato improbabile).

E che ha in realtà confermato alcune caratteristiche di fondo del sistema politico russo che -senza falsa modestia- da tempo andiamo dicendo.

Uomo (non) solo al comando

Prima di tutto, l’intera vicenda del gruppo Wagner ha confermato che Vladimir Putin è espressione e punto di sintesi di diversi gruppi di potere in stato di competizione interna permanente.

E che negli ultimi decenni, ne facciano parte sempre più boiardi di Stato e tecnocrati ai vertici della mastodontica funzione pubblica e sempre meno gli oligarchi (che hanno mantenuto ricchezze ma perso potere politico).

Più che al Leader bisogna guardare alla Leadership russa e alle sue dinamiche interne per capire dove va la politica di Mosca e chi (e quando) verrà dopo Putin (una lotta di successione iniziata da almeno dieci anni e il cui esito Putin stesso né conosce né determina).

Continuare a raffigurare la Russia come una sorta di Putinlandia con uno Zar solo al comando  semplifica il lavoro di quanti si occupano del paese (spesso, senza averci vissuto o parlarne la lingua); di certo condanna l’Occidente alla nemesi storica del continuare a prendere atto del cambio del potere al Cremlino il giorno dopo che è avvenuto, con rinnovato stupore.

Carisma, Popolarità, Consenso

Forse perché ossessionati dal cronico deficit di leadership forti occidentali, continuiamo a dare troppo peso alla narrazione del carisma di Putin, peraltro oggi più forte fuori che dentro la stessa Russia.

In uno degli statalismi più rigidi rimasti in circolazione, il consenso della popolazione e la legittimazione del potere è da sempre nella funzione istituzionale che si ricopre.

È inutile interrogarsi se oggi Prigozhin (come si faceva ieri per il Covid-19) abbia indebolito o rafforzato l’immagine di Putin in un sistema politico dove il carisma e la popolarità aiutano il leader di turno, ma non ne determinano né la selezione a monte né la successiva permanenza in carica.

Che l’immagine di Putin si “stia indebolendo” è un gerundio continuativo oramai ripetuto da più di due decenni che sa di escamotage retorico più che di analisi oggettiva.

Wagner, creatura del Cremlino

Come scrivemmo su queste pagine, il Cremlino – e Putin in persona – è stato centrale nell’evoluzione di Wagner in un contractor para-statale, che ha sempre risposto solo al vertice politico (non militare) russo. Oltre che per scopi bellici, in Ucraina è stato utilizzato come una spina nel fianco delle autorità militari russe per scaricare su di loro la responsabilità delle difficoltà sul campo e limitarne l’eccessiva crescita sul piano interno, in aumento dopo le vittorie di Mosca in Siria.

Nell’interpretare il ruolo del “Zirinovsky di guerra”, Progozhin ha preso di mira sempre e solo le gerarchie militari russe, con un ampio risalto sui media pubblici (impensabile senza un placet del Cremlino) in quello che tutti hanno letto come un’azione concordata con il vertice politico di cui sopra.

Pur tollerando il ruolo internazionale di Wagner (soprattutto in Africa e Medio Oriente), molti a Mosca hanno mostrato insofferenza per la crescita di popolarità, finanziamenti, protagonismo avuta in uno scenario vicino e sentito come l’Ucraina da parte di quello che è stato sentito come un corpo para-militare anomalo nello statalismo russo. Peraltro, guidato da un soggetto senza formazione istituzionale e del tutto estraneo all’elitario Deep State moscovita. Utile come braccio armato ma non credibile come guida politica.

Benché nessuno abbia osato metterlo formalmente in discussione perché protégé del Cremlino, era diffusa la sensazione che prima o poi questo corpo estraneo sarebbe stato rigettato e che la sovraesposizione di Prigozhin lo destinasse a fare una fine prematura e violenta, simile a quella toccata ad altri leader paramilitari nel recente passato (su tutti, Željko Ražnatović “Arkan” in Serbia).

Non ribellione ma Exit-Strategy

Assodato con certezza che non si è trattato di un colpo di Stato (per fortuna, perché avrebbe sancito uno stato di emergenza nazionale, precondizione formale per l’uso dell’arsenale nucleare) quella di Prigozhin non sembra nemmeno essere stata una ribellione quanto una vera e propria exit-strategy per mettersi in salvo da un’imminente azione dei militari nei suoi confronti. E di cui quasi sicuramente è stato avvisato dall’interno (in questo contesto andrebbero lette le voci dell’arresto – poi smentito dal Cremlino – del generale russo Sergei Surovikin).

Sentitosi (a torto o a ragione) scaricato dal Cremlino, la reazione di Prigozhin sarebbe stata un abile tentativo (pare riuscito, per ora) di ribaltare il tavolo con una mossa del cavallo.

Rendendo pubblica una crisi che Mosca non poteva permettersi di risolvere con il pugno di ferro per vari motivi, non ultimo il fatto che gli stessi media di Stato hanno fatto del leader di Wagner il combattente russo più noto sul fronte ucraino.

Cosa cambia per Putin

Piuttosto, non si presta sufficiente attenzione al fatto che con lo scioglimento di Wagner, viene meno un prezioso asset che è stato a disposizione diretta della leadership non-militare del Cremlino, e che si era mostrato utilissimo su più scenari nella fase più espansiva della politica estera russa, dopo il 2012.

In un paese che dà centralità ai settori dello Stato a seconda della priorità di governo del momento, l’uscita di scena di Wagner, per di più in conseguenza di uno scontro con l’Armija Rossii, rafforzerà in periodo di guerra il peso dell’élite militare a Mosca rispetto alle altre tre élite dominanti nel ventennio di Putin (intelligence, alta funzione pubblica, diplomatici).

Inevitabilmente, aumenterà la dipendenza della leadership civile dal vastissimo settore Difesa russo, integralmente di matrice pubblica, tornato ad avere il monopolio dell’uso della forza militare.

È in questo nuovo quadro istituzionale, piuttosto che nei cali del carisma o nel dissenso a vuoto di qualche oligarca, che va cercato il segnale di un indebolimento di Putin.

E dell’equilibrio politico di cui è garante.


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